Compirebbe cento anni, e sembrerebbero pochi per uno così destinato alleternità, uno che a un giornalista amico confidò che nel caso si fosse reincarnato sarebbe stato certamente unaquila. Invece, ormai da quasi diciottanni, sulla piccola croce d'un cimitero di campagna presso Salzburg si può leggere: Herbert von Karajan. Quel nome, umile e solo sulla povera tomba, è un colpo al cuore per chi lha per tanti anni veduto come un segno folgorante, una garanzia di qualità vertiginosa sotto la striscia gialla della casa discografica, una calamita di attese fino al silenzio religioso con cui lo si aspettava al concerto.
In questi giorni tutti noi che scriviamo di musica - anche chi non lha mai ascoltato dal vivo - cerchiamo di capire e far capire chi fosse. Siamo trasvolati da definizioni, motti classifiche, intuizioni solenni e compitini psicologici. Io non sono capace di scrivere giudizi sulla pietra, ma lho ascoltato dal vivo per trentacinque anni e ho accumulato tante emozionanti riflessioni, da quando dirigeva diritto e spavaldo e si diceva passasse col suo piccolo aereo personale sotto i ponti di Salisburgo, fino a quando, tormentato dalla discopatia, stava come imprigionato in se stesso muovendo poco le mani, ad occhi chiusi, accendendo solo a tratti sguardi d'acciaio. E ho sempre dubitato che su lui possano calzare definizioni. L'uomo, l'artista, andava sempre oltre.
Per esempio, lo si sapeva chiuso in un mondo suo. Girava una storiella: camminavano conversando tre direttori famosi; a uno di loro, Karl Böhm, scappò detto: «Sono il più bravo, nessuno è pagato come me»; allora Leonard Bernstein replicò: «No, guarda, io sono il più bravo: me l'ha detto Dio». Karajan, che era avanti due passi, si voltò: «Che cosa ti ho detto, io?». Era un demiurgo, si sentiva tale. Ma i cantanti che hanno lavorato con loro, soprattutto i più grandi, ricevevano segni di rispetto, di libertà, nella fiducia d'interpretare sulla stessa lunghezza d'onda. Giuseppe Di Stefano mi raccontava che la prima volta nella Carmen sotto la sua direzione, all'attacco della famosa «romanza del fiore», aspettava come da tradizione d'essere come imboccato dal gesto del direttore, e lo vide tutto raccolto in attesa. «O Dio, si sente male» mormorò a Giulietta Simionato, che gli era accanto in scena, e lei: «Attacca, attacca». «Allora mi buttai - continuò Di Stefano - presi il fiato, e alla prima nota l'orchestra era già con me, col mio respiro». Mirella Freni ricorda che nell'Otello di Verdi una volta, mentre, per ragioni di regìa firmata dallo stesso Karajan, gli voltava le spalle, diversamente dalle altre sere sentì il bisogno assoluto di rallentare. Non c'era tempo di accordarsi. Osò, e sentì che l'orchestra lo faceva esattamente come lei. Quando tornò a girarsi verso il podio vide che il maestro le mandava un bacio.
Si diceva che fosse un dittatore, un tiranno insensibile al lavoro dei sudditi. Una volta, in prova, dopo ore di silenzio teso, arrivò nella sala d'incisione l'ombra dun rombo di motore dall'esterno. Karajan sobbalzò: «Che diavolo è?», ed un violinista gli rispose: «Maestro, il mondo è libero, fuori». Tiranno sì, ma è difficile spiegare quali giuste sindromi si formino nel lavoro dell'arte. Al Festival di Salzburg, una sera, i Berliner Philharmoniker eseguivano la sinfonia Dal nuovo Mondo di Dvorak, partitura popolare da sempre in repertorio. NellAdagio, c'è un passo, avviato da flauto e oboe, in cui gli archi devono solo accompagnare con un tremolo, una specie di frullo, e per il resto del movimento prevale il canto condotto dagli strumenti a fiato. Karajan stava voltato verso loro, e con la mano sinistra cominciò a chiedere agli archi alle sue spalle, quasi in punta di dita, cambi continui di volume e colore, come unansia, uninquietudine, forse una speranza; e da allora continuò così, tenendoli quasi sollevati dalle sedie per rispondere a quella domanda insistente di vita, senza girarsi mai verso di loro. Era da stare con il fiato sospeso. Mi ricordo, io ero in sesta fila e avevo in mano una partitura. Alla fine dell'Adagio decisi: adesso, se non fa loro un cenno di ringraziamento, gliela tiro in testa. Ma Karajan si voltò verso loro e sinchinò profondamente.
Era un direttore intriso della civiltà austriaca decadente, quella dove la luce si staglia in un orizzonte quasi malato: la sofferenza della bellezza, il dispiacere di lasciare ogni suono nel tempo che scorre e muore. Era anche della generazione non ancora sfiorata dall'onda filologica. Il suo barocco è inzuppato nellOttocento, ad esempio. Nel suo Vivaldi, Venezia è vissuta come un sogno perduto. Ma un mezzogiorno a Lucerna, con gli studenti che contestavano le autorità cittadine che gli avevano conferito un premio quando lesinavano i soldi alla gioventù cittadina, si presentò alla cerimonia con un gruppo di strumentisti, stette pochi secondi al microfono per annunciare che devolveva il premio per una borsa di studio e per esprimere il piacere della comune fedeltà alla musica, poi si sedette di scatto al clavicembalo e scoccò l'inizio del Primo Concerto Brandeburghese di Bach. Le ragioni della storia mi sembrarono fulminate. Quando al culmine del rapinoso Adagio l'attesa dell'Allegro si consuma in uno scambio di accordi nelle differenti combinazioni di strumenti, e vorremmo quasi che non finisse mai perché stiamo scoprendo l'infinito segreto del suono, mi parve di avere toccato la verità della musica assoluta.
Tutto si discute, per presunzione o per volontà di capire, figuratevi in un uomo che fondò per primo un impero industriale sulla sua arte d'interprete, e che, partito dal piacere della regìa come avventura essenziale, finì poi per provare in scena in playback sul disco magari inciso da altri interpreti.
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