Caro Granzotto, ho ascoltato in televisione i commenti al rapporto dell'Ocse e tutte le osservazioni sul fatto che siamo il fanalino di coda nella ripresa e a quello di testa nel rapporto tra il deficit e il Pil. Io non sono un pessimista di natura ma se la situazione è questa siamo messi proprio male e comincio a chiedermi di chi è la colpa.
Le cose non vanno bene, caro Bollea, questo è evidente. Però va aggiunto che a differenza di ciò che si legge sui giornali (e si sente ai telegiornali) così detti progressisti, vanno male per l'intera Europa eurolandica, non solo per l'Italia. Le Monde, quotidiano che tutti dicono essere autorevole (sempre, non solo quando fa comodo), così titolava il servizio sulle prospettive economiche elaborate dell'Ocse: «La ripresa europea manca cruellement all'appello». Far credere il contrario e cioè che all'appello manca solo la ripresa italiana, soddisfa due esigenze: tutelare la virginale onorabilità dell'Unione europea e tirare la croce addosso a Berlusconi. In quest'ultimo esercizio, poi, si distingue il presidente degli industriali che così facendo distoglie o cerca di distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dalle pesanti responsabilità degli imprenditori in questa crisi. Ne abbiamo già discusso, ma per rinfrescarci la memoria valgano le parole indirizzate dal ministro Siniscalco al gotha imprenditoriale italiano: «Più industria e meno finanza, meno parole e più produttività».
E veniamo alla verginità dell'Europa. In passato abbiamo dovuto vedercela con congiunture ancor più serie di quella che oggi ci tocca subire. Ricorda, caro Bollea, gli anni dell'inflazione a due cifre? Ricorda quando la crisi era così devastante da indurre la Fiat a elemosinare i petrodollari di Gheddafi nonostante fosse il riconosciuto Grande Vecchio del terrorismo? Eppure ne siamo usciti (anche la Fiat, allora) e senza la ferula di Maastricht, senza le direttive di Bruxelles, senza l'ambaradam eurolandico. Ne usciremo anche questa volta, ma essendoci fatti ferventi devoti di San Maastricht toccherà vedercela oltre che con le ragioni interne o esterne, economiche o finanziarie, strutturali o accidentali della crisi, anche coi lacci e lacciuoli di Bruxelles. Anche con la sicumera degli eurofaraoni sempre pronti a dar pagelle e a sventagliare i dati Eurostat come fossero la mannaia del boia (la statistica è una scienza esatta ad altissima manipolabilità. Basta togliere o aggiungere una voce al paniere o ai criteri dei parametri e il più diventa meno, il meno diventa più). Per capirci: il meno europeista dei soci dell'Unione, l'Inghilterra che si è tenuta la sua sterlina, l'Inghilterra delle «clausole di salvaguardia», degli «opting out» e del memorabile «I want my money back», insomma l'Inghilterra pragmatica, con la testa sulle spalle e non a galleggiare nei vapori dell'utopia europeista, gode economicamente di eccellente salute e sbaragliando i devoti di San Maastricht è diventata la quarta nazione al mondo per investimenti stranieri.
Per fortuna tutto lascia pensare che sono sempre meno quelli che credono ancora alla favola dei Prodi, dei Padoa Schioppa (autore di un libro dall'imbarazzante titolo: Europa forza gentile) e delle Lilli Gruber di un paradiso in terra saggiamente amministrato da virtuosi euroangeli consacrati al bene e alla felicità comune, alla favola di una Europa trampolino del progresso, della crescita economica, dell'occupazione e del benessere. Dove il trattato costituzionale (simbolo, paradigma stesso dell'Europa eurolandica) è sottoposto a referendum, il fronte del no s'ingrossa sempre più.
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