Mogadiscio 2 luglio 1993. Le forze italiane impegnate nella missione «UnoSom II» vengono schierate nell'operazione Canguro 11. Il contingente, che si è già trovato in situazioni complesse per il mantenimento e il controllo dei vari checkpoint ad esso affidati lungo la Via Imperiale, che taglia in due Mogadiscio, o nel mantenere l'ordine durante le distribuzioni di cibo, è coinvolto in un rastrellamento decisamente sgradito alla fazione del generale Aidid. Una prima colonna, denominata «Alfa», proveniente dalla zona del porto vecchio di Mogadiscio e una seconda, «Bravo», proveniente dal sobborgo di Balad - dove si trova un altro importante presidio italiano - convergono verso l'obiettivo: un'area di 400 metri per 700 compresa fra due dei checkpoint dove sventola il tricolore, quello denominato «Ferro» e il «Pasta» (così chiamato perché posizionato vicino a un vecchio pastificio della Barilla). Requisiscono armi, si inoltrano nei vicoli, forse arrivano troppo vicino a dove si trova l'imprendibile Aidid.
Non lo sapremo mai, di sicuro la risposta alle perquisizioni italiane è violentissima, scendono in campo migliaia di guerriglieri che non hanno la minima remora a farsi schermo dei civili. Il contingente italiano, all'epoca ancora in massima parte formato da soldati di leva, viene coinvolto in un feroce combattimento urbano, bersagliato con fucili d'assalto, mitragliatrici pesanti, razzi anticarro. È la prima vera battaglia di terra in cui vengano coinvolte forze italiane dai tempi della Seconda guerra mondiale. Alla fine gli italiani ripiegano abbandonando il checkpoint «Pasta». Perdono la vita tre nostri militari e ne restano feriti 22. Le perdite degli irregolari somali sono state quantificate in un minimo di 67 morti e 187 feriti ma i numeri reali sono probabilmente ben più alti.
Quest'episodio che è rimasto nella memoria collettiva con il nome di Battaglia del Pastificio venne messo molto sotto traccia dai media dell'epoca. Si preferì smorzare i toni, anche a partire dal non sempre specchiato ruolo del nostro Paese rispetto al passato somalo e dalla paura che qualcuno mettesse in discussione la partecipazione dell'Italia alle missioni Onu. Del resto Mogadiscio era una polveriera e qualche mese dopo dovettero rendersene conto anche gli statunitensi: nel tentativo di mettere le mani sullo «stato maggiore» di Aidid lasciarono sul terreno 19 morti e 73 feriti. La storia della battaglia americana è stata raccontata molte volte, basti pensare al film Black Hawk Down di Ridley Scott, del 2001, o all'omonimo saggio di Mark Bowden.
Ora arriva un mémoire italiano che, e si potrebbe anche dire finalmente, racconta quella giornata di combattimento dall'interno. Si intitola I diavoli neri. La vera storia della battaglia di Mogadiscio e lo ha scritto il Generale Paolo Riccò (Longanesi, pagg. 316, euro 18,90, a cura di Meo Ponte).
Il generale Riccò all'epoca era il capitano al comando della XV compagnia paracadutisti «Diavoli Neri» che coi suoi Vcc-1 Camillino (dei veicoli blindati per trasporto truppe che possono essere considerati una versione modernizza degli M113 statunitensi) si trovò a sostenere il momento più intenso della battaglia. Purtroppo contando un morto, il caporal maggiore di leva Pasquale Baccaro (Medaglia d'oro al valor militare), un ferito grave, l'allora sottotenente Gianfranco Paglia (Medaglia d'oro al valor militare), e svariati feriti, tra cui lo stesso Riccò colpito al collo.
La narrazione di Riccò, che inquadra bene tutto il progredire della missione, dall'addestramento in Italia sino alle conseguenze della battaglia e alle difficoltà che gli italiani ebbero per riprendere e mantenere il controllo di «Pasta», non è affatto tenera. C'è l'eroismo di chi ha combattuto, il valore dimostrato da molti degli elementi del contingente ma anche una onesta narrazione di tutti i limiti dell'operazione Restor Hope. Dal mancato coordinamento tra contingenti, alle pecche del dispiegamento italiano che, se fossero state affrontate in altro modo e non messe sotto il tappeto, avrebbero potuto portare ad esiti meno funesti.
Paolo Riccò per il suo comportamento durante lo scontro al Pastificio ha avuto una medaglia di bronzo: «Si distingueva per coraggio, determinazione e professionalità, spingendosi dove più intensa era l'azione nemica e neutralizzando numerose sorgenti di fuoco avversario...». È solo una parte della motivazione della medaglia, benché ferito ha salvato la pelle a un bel po' di suoi ragazzi dopo che un razzo a carica cava ha penetrato uno dei Vcc-1 come fosse di burro ferendo a morte Pasquale Baccaro che gli è morto tra le braccia.
Però si capisce lontano un chilometro che Paolo Riccò alla medaglia avrebbe preferito una pianificazione migliore e riportare tutti vivi a casa. Soprattutto come scrive lui stesso alla fine del volume avrebbe preferito poter raccontare davvero come si sono svolti i fatti al «Pasta» per trarne la lezione necessaria: «Sono stato insignito della medaglia... Nessuno però mi ha mai chiesto cosa sia realmente successo quella mattina del 2 luglio 1993 al checkpoint».
In questo volume lo racconta, dando voce anche a molti dei suoi paracadutisti.
E ora che la polvere delle strade di Mogadiscio si è depositata per 27 anni sul sangue di somali e italiani che hanno combattuto, forse questa storia è il caso di ascoltarla, per come i testimoni la ricordano (nella mente e a volte anche nel corpo ferito).- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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