Guerra Libia

I fedelissimi del Colonnello tra minacce e grandi bluff

Tripoli Il tremendo concerto comincia con la contraerea e le sue raffiche ritmate, che rompono i timpani. I proiettili traccianti di grosso calibro fendono il buio della notte. Poi arriva l’esplosione di un missile o di una bomba, anticipata da un bagliore bianco e alla fine rosso. La guerra alla Libia colpisce Tripoli, roccaforte del regime, da due notti di seguito. Ed i suoi soldatini, che il Giornale ha incontrato ai funerali dei commilitoni rimasti uccisi sotto le bombe, descrivono quanto sia scarsa la difesa. «Non facevamo in tempo a sparare che i caccia sparivano e poi tornavano colpendoci di nuovo» racconta un giovane caporale.
Verso le 19 italiane di ieri abbiamo sentito per la prima volta il rombo dei jet a reazione che si tuffavano in picchiata da qualche parte nella periferia della città, seguito dal rumore più sordo delle bombe che esplodono. Più tardi un forte botto ha fatto tremare l’albergo che ospita la stampa internazionale. Non sono raid massicci e continui come l’attacco della Nato contro i serbi a Belgrado, ma lampi di guerra che durano sui venti minuti.
L’aspetto più fastidioso è una batteria antiaerea molto vicina all’hotel. Quando spara sembra che tiri raffiche sotto le nostre stanze. Non sai se chiuderti in bagno, il vano più sicuro essendo interno e senza finestre. Oppure scavalcare il balcone per raggiungere il tetto, dove puoi osservare la guerra in diretta.
Il nostro albergo è ad un chilometro e mezzo da Bab al Azizya, la cittadella fortificata del colonnello.
L’aspetto più paradossale è che durante gli attacchi alleati il fragore della contraerea e delle esplosioni si mescola al carosello di macchine e allo strombazzare dei clacson dei fan di Gheddafi. Un sistema per far sapere a tutti che non mollano, neppure sotto le bombe. Un serpentone di automobili corre subito a circondare come una catena umana Bab al Azizya. «È incredibile. Siamo l’unico paese al mondo che festeggia quando ci attaccano» sussurra un oppositore del regime che fa finta di inneggiare a Gheddafi. Dopo la prima notte di attacco su Tripoli sono subito rimbombate le urla di Allah o Akbar, Dio è grande, dei sostenitori del colonnello che hanno ballato e cantato davanti al nostro hotel per ore.
Dalla prima notte di guerra i giornalisti occidentali vengono considerati mezzi collaborazionisti dei «nemici crociati», come la propaganda bolla gli aggressori della Libia. Pure il simpatico e giovane cuoco dell’albergo comincia a guardarci storto. «Andrò a combattere e vorrei ammazzare soprattutto i francesi che hanno insistito per attaccarci» mi confessa a bassa voce guardando di traverso un gruppetto di giornalisti d’Oltralpe.
Con la decisione di Gheddafi di aprire gli arsenali e distribuire i kalashnikov ai civili, non è più salutare girare a Tripoli da soli sfuggendo al controllo del ministero dell’Informazione. Il regime, per ora, non ci porta a vedere i risultati dei bombardamenti, che vengono abilmente filtrati e trasmessi dalla televisione libica. Secondo fonti a Tripoli sarebbero state colpite diverse caserme attorno alla capitale, compresi i centri della 32° brigata. I noti baschi rossi guidati da Khamis, il figlio militare di Gheddafi, che si sono distinti nelle offensive anti ribelli prima dell’intervento alleato. Un altro obiettivo colpito dovrebbe essere l’aeroporto militare di Mitiga, sul lungomare di Tripoli, non molto distante dall’ambasciata italiana oramai chiusa.
Depositi ed installazioni militari sono stati centrati anche a Tajoura, un sobborgo di Tripoli dove cova la rivolta contro Gheddafi. Ai funerali di massa delle 48 vittime ufficiali della capitale e dintorni, nel primo giorno di raid, vogliono farci pensare che si tratta solo di civili. Attorno a due file parallele di una ventina di fosse, appena scavate per accogliere le salme, ci sono diversi giovani in divisa. Il caporale Hussein Mohammed, 25 anni, è in uniforme verde di El Jis, l’esercito libico. Arruolato in un reparto contraereo ci racconta, con uno sguardo infinitamente triste, come è scampato all’inferno. «Su Tajoura sono arrivate due ondate. Non facevamo in tempo a sparare che ci avevano già colpito ed erano spariti. Poi sono tornati per bombardarci di nuovo ed il copione si è ripetuto» spiega il caporale. «Sono venuto a salutare per l’ultima volta chi è caduto al mio fianco - sottolinea Mohammed - Anche se non li conoscevo tutti li considero come fratelli». La sua unità, i depositi e la caserma di Tajoura sono stati colpiti duramente con missili e bombe. «Sono orgoglioso di combattere per il mio Paese, anche se non dimenticherò mai il lago di sangue dei miei commilitoni fatti a pezzi. Abbiamo cercato di soccorrerli sotto il bombardamento, ma sono morti in tanti» rivela il soldatino libico.
Al funerale di massa nel cimitero di Shati Alhinsheer, sulla spiaggia fra Tripoli e Tajoura, si sono raccolte oltre mille persone. Tutti inneggiano alla guerra santa contro l’Occidente e gridano in coro «Sarkozy nemico di Allah» riferendosi al presidente francese, che ha fortemente voluto i raid. Lo stesso ritornello tocca all’inquilino della Casa Bianca, Barack Obama.
Sulla spiaggia-cimitero di Tripoli pregano e sparano in aria in onore ai «martiri» e se la prendono con le bugie dei media sulla guerra in Libia. Fra le prime vittime delle bombe alleate ci sono anche dei civili. Ramadan Abdul Saleh Alzurgani, 31 anni, stava tornando a casa dopo aver accompagnato la sorella in ospedale. Al volante della sua automobile è passato nel momento sbagliato vicino ad uno degli obiettivi militari colpiti a Tajoura. «Hanno visto una specie di palla di fuoco che avvolgeva tutto, compresa la macchina di mio cugino» racconta Mohammed Alzurgani. Faccia da moderato ha appena finito di stringere mani per le condoglianze. Davanti alla terra fresca della tomba di Ramadan ci scongiura: «Per favore dite al nostro governo e alla comunità internazionale, che vogliamo solo vivere in pace».
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