I figli di Erika uccisi dal suo male oscuro

PIETÀ L’ultimo sprazzo di lucida compassione: aveva dato ai piccoli una dose di sonnifero

I figli di Erika uccisi dal suo male oscuro

L’ultimo bagliore di compassione, prima di lasciarsi andare nel vortice del nulla, è ancora per i bambini: un po’ di sonnifero, così che non si accorgano della fine. Quando è certa che dormano, nel loro letto, le coltellate letali. Solo a questo punto sente di potersene davvero andare, liberandosi di tutti i pesi: depone sulla credenza una lettera con i suoi insondabili perché, si taglia le vene, infine si lancia dalla finestra di casa. Gli inquilini della palazzina, nel silenzio della notte, avvertono chiaro il tonfo sul selciato. Quando si affacciano, la scena è spettrale: là sotto c’è Erika Mingotti, la mamma del secondo piano, 34enne separata, un povero manichino che non avverte più pene. Castenaso, Bologna: una notte da incubo e tre salme da raccontare. Di questi tempi, come un macabro reportage afghano.
È così: esiste una Kabul sommersa, ma neanche tanto, dentro molte case d’Italia. L’aria che si respira, l’atmosfera plumbea, l’ansia densa, tutto questo porta un nome generico e fosco: depressione. Ogni giorno la faticosa lotta contro il nemico meschino e inafferrabile, che non si manifesta mai a viso aperto, alla luce del sole, lealmente: la belva lavora dentro, di nascosto, senza fare rumore. È difficile tenerla sotto controllo, servono energie enormi. Ma lei sa aspettare. Quando la fatica diventa troppo pesante, quando la guardia si abbassa anche solo di poco, la belva non perdona. Scatta l’agguato. È allora che anche in questa cupa Kabul, nascosta tra i segreti più intimi, si piangono i caduti. Sono gli anonimi caduti della vita.
Non ci sono funerali di Stato per questo genere di vittime. Il più delle volte non vengono nemmeno riconosciuti per quello che sono, trovandosi i vivi in netta difficoltà nell’accettarli per quello che sono. C’erano tempi e luoghi in cui i giornali nemmeno li raccontavano, questi morti: si diceva per pietà, era solo per comodità. Troppo impegnativo, troppo imbarazzante esibire quella che il costume generale considerava una fine vergognosa. Quasi una colpa, nemmeno degna di un buon funerale.
Anche la signora Erika, adesso, avrà sicuramente in scia parecchia gente che censura. Già noti i commenti: non ci si ammazza mai, non esiste che una mamma possa alzare il coltello sui propri bambini. Sì, certamente ci sarà qualcuno capace di emettere giudizi fermi e irrevocabili. Beati costoro. Beati quelli che vivono di certezze e che possono risparmiarsi il seccante fastidio della pietà.
Certo Erika non aveva un motivo logico e sufficiente per sterminare la famiglia. Non ne esistono, in natura. Semplicemente, Erika era malata. Basta questo per arrivare a tanto? Chi sa di cosa si parla, chi conosce la belva che trasforma un’esistenza normale in una perenne Kabul, può confermarlo: non sempre finisce così, ma può finire così. Se alla belva non viene messa una museruola, può inventarsi le aggressioni più turpi. Nell’anima si agita un tale turbine di angoscia, che qualunque conseguenza è possibile. Anche sterminare le proprie creature, che per una mamma è l’estremo impossibile.
Raccontano le vicine di casa come Erika non riuscisse ad accettare la separazione dal marito. La rottura è di un anno fa. Rispetto allo scontato rituale post-mortem, siamo già un passo avanti: normalmente, i vicini raccontano ai microfoni che non avevano notato niente, che non c’erano segnali, che quella persona sembrava così serena... Qui no: le persone più vicine ad Erika s’erano accorte della sua fatica. L’avevano consigliata di chiedere aiuto allo specialista. Lei aveva accettato il consiglio, ma non è ben chiaro se e a chi si fosse rivolta per i necessari supporti, psicologici e farmacologici. Come affettuoso tributo, un’amica la ricorda «dolce, calma, tranquilla». E aggiunge: «Sicuramente non era semplice con due bimbi piccoli mandare avanti la casa e andare pure a lavorare. Faceva l’impiegata in un’aziendina meccanica. Era una che sgobbava. Eppure, non era mai trasandata. Anche dopo la separazione era sempre molto curata, lei e i bambini...».
Alessio, sei anni, e Arianna, cinque. La sua nuova vita da moglie separata giocata tutta sui figli. Però una vita difficile, con gli equilibrismi di una normalità molto complessa. La normalità complessa non è un gioco di parole: tanta gente, tutti i giorni, la vive in prima persona. È la gente cui Tremonti vorrebbe erigere un monumento, a fine crisi, considerandola apertamente la gente migliore dell’Italia migliore. Erika ci stava provando, ma quella malattia che tutti conoscono e pochi riconoscono, lentamente, se l’è corrosa dentro. E al momento giusto, il momento peggiore, l’ha armata di sonnifero e coltello, in una furia spietata d’automa.
Basta una separazione per chiuderla così? Certo che no. Ma l’errore che bisogna evitare, di fronte a un simile finale, è la ricerca di spiegazioni pratiche e grossolane. A mente lucida, Erika per prima avrebbe detto che mai, nemmeno nella disperazione, si può arrivare a tanto.

Ma Erika non era disperata: era depressa. In questo stato, certe scelte non si decidono: si subiscono. E questo è tutto. Quel che resta è solo una sommessa speranza. Possa Erika ritrovare con i suoi bambini ciò che cercava: là, dove la pace è possibile.

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