Caro Veltroni,
nel dibattito di questi giorni sulla casta, l'antipolitica e il grillismo molti volano alto come aquile reali nell'olimpo dei massimi sistemi. C'è chi, a proposito di Grillo, scomoda la nascita del fascismo (Eugenio Scalfari) e chi, a rovescio ma con uguale estro di parallelismi storici, tira in ballo il Sessantotto (Giovanni Sartori). Quanto ai politici, tra quelli che sono al potere si va dallo sdegno fuori luogo di Mastella, alla paterna comprensione di Bertinotti, all'entusiasmo di Di Pietro; lopposizione osserva quasi compiaciuta, calcolando quanti voti il grillismo potrà sottrarre all'avversario. Anche lei, signor sindaco, sembra guardare più agli effetti che alle cause, vicine e concrete, del disgusto verso i politici. Nessuno sembra sforzarsi di capire davvero cosa succede fra la gente, e perché.
Voglio allora raccontarle una storia piccola ma illuminante, oh, quanto illuminante. Come lei sa bene, piazza Vittorio Emanuele II è un'importante piazza di Roma, sul colle dell'Esquilino. L'area fu costruita con bei palazzi umbertini negli anni Settanta dell'Ottocento, quando il fervore dell'Italia piemontesizzata voleva dare la propria impronta (e case per la nuova classe dirigente) alla capitale appena conquistata. In questi ultimi anni, forse per la vicinanza alla stazione Termini, l'intero quartiere, benché centrale, è molto decaduto: prima per la guerra fra bande della criminalità extracomunitaria, poi per l'invasione dei cinesi, che hanno spodestato quasi tutti i commerci tradizionali sostituendoli con centinaia di misteriosi negozi, sempre vuoti, di mutande e di calze. Ma a me quella zona piace. Perché ci sono i sapori e le cucine di mezzo mondo e perché è un vero laboratorio per l'incontro - sia pure difficoltoso - fra razze e culture, in una frenesia multietnica unica in Italia e che ricorda New York. Nei grandi giardini al centro della piazza trovi italiani di tutte le religioni e ogni colore di pelle, sfumature comprese.
Lei ha dichiarato più volte di voler «riqualificare» il quartiere, ma non credo proprio sia per questo che l'illuminazione pubblica di piazza Vittorio è accesa spessissimo anche di giorno: centinaia di luci, fra lampioni nel giardino quelli sotto i portici sono misteriosamente, tenacemente accesi anche in piena luce, agli orari più strani. Ebbene, a un simile, inspiegabile spreco nessuno fa caso. Non gli extracomunitari, quelli che lavorano come bestie da soma, che vivono ammassati in subaffitto e mangiano poco per mandare soldi a casa e che potrebbero dire «Ecco, guarda come sprecate i soldi che risparmiate sulle nostre paghe in nero». Né ci fanno caso gli anziani romani che non possono sedersi sotto i portici a prendere un tè e stazionano sulle panchine, per risparmiare sulla pensione miserabile. Non si interrogano né protestano neppure le mamme di ogni colore, nell'angolo modesto dedicato ai bambini, che pure si lamentano, a ragione, per la mancanza di posti negli asili comunali e per il prezzo troppo caro di quelli privati.
Io credo si tratti di disincanto, non di menefreghismo, di una sensazione di impotenza rispetto agli sprechi e all'inefficienza del servizio pubblico. I cittadini non sono neanche più in grado di scandalizzarsi per come vengono sciupati i loro soldi e si sono rassegnati ai disservizi. Come anch'io, cittadino di lusso, mi sono rassegnato al fatto che i taxi continuano a non funzionare, dopo la liberalizzazione fallita di Bersani.
Del resto, cosa possiamo fare per migliorare la situazione? Ci ho provato, più volte, a chiamare il Comune di Roma, senza qualificarmi, da cittadino senza poteri. «Perché le luci di piazza Vittorio sono accese a mezzogiorno?». «E che ne sappiamo noi», è stata la risposta, con toni varianti dall'assente, al seccato, all'arrogante. «Chiami l'Acea». I centralinisti, forse inconsciamente, saltano un passaggio logico: è il cittadino che paga le bollette pubbliche, quindi il cittadino provveda da solo a far spegnere la luce chiamando l'azienda elettrica. Sì, ma il cliente è il Comune. E se si telefona all'Acea ti rispondono di chiamare il Comune. Allora ecco che il cittadino, non più in grado di scandalizzarsi e neppure di sorprendersi per gli sprechi, esulta per la semplice, sana, naturale gioia di vedere che c'è qualcuno grillescamente in grado di mandare affanculo Chi Non Spegne La Luce, di farsi sentire e di essere ascoltato.
Signor sindaco, anche se poche ore dopo la pubblicazione di questa lettera le luci diurne di piazza Vittorio non ricompariranno, non sarà per me un motivo di allegria: perché - ancora una volta - una casta avrà parlato all'altra, rinnovando il senso di impotenza e di umiliazione di chi non può scrivere sulle prime pagine dei giornali.
Caro Veltroni, io non sono uno dei corvi speranzosi che il nascente Partito democratico vada male, anzi.
Giordano Bruno Guerri
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