Torino - Un’indagine lunga e difficile, durata oltre quattro anni e capace di smascherare gli autori di un omicidio e i componenti di un’agguerrita organizzazione di trafficanti di droga. Un’inchiesta delicata, complessa. Che si è tuttavia arenata sul più bello, quando i carabinieri stavano per far scattare le manette ai polsi dei responsabili di quel traffico di stupefacenti. A bloccare l’azione di militari e pubblici ministeri è stato un giudice, che si è rifiutato di firmare l’ordine di arresto avanzato dalla Procura di Torino nei confronti di 34 appartenenti al clan. Non valeva la pena di arrestarli, perché tra indulto e altre concessioni non avrebbero fatto neppure un giorno di galera.
Si chiama Alessandro Prunas Tola, ha 44 anni e da almeno dieci è giudice delle indagini preliminari presso il tribunale di Torino. La sua decisione ha sorpreso un po’ tutti, meno i suoi colleghi di lavoro. Lui non parla, si trincera dietro un freddo «no comment». «Lascio parlare le carte processuali - spiega -, le parole servono a poco».
Parlano, invece, gli altri gip di Torino. Non sono affatto sorpresi dalla decisione presa dal loro collega, anzi. Spiegano che è normale, che «la legge non esclude l’applicazione delle misure, ma richiede di determinare in via prognostica l’entità della pena che in caso di condanna potrà essere comminata a ciascun indagato per stabilire se risulti possibile applicare la misura coercitiva». È quello che ha fatto anche Prunas Tola, che nella propria ordinanza scrive: «Tenuto conto del probabile accesso ai riti alternativi e della possibile concessione delle attenuanti generiche, i tre anni di pena estinti con l’indulto, che acquistano la valenza di tre anni di pena già scontata, si estendono a gran parte delle pene che, in ipotesi di colpevolezza, saranno inflitte agli attuali indagati». Pertanto, si chiede il giudice, che senso ha metterli in galera adesso se poi, in caso di condanna, gli indagati non faranno neppure un giorno di carcere perché la pena verrà cancellata dall’indulto? Arrestarli adesso sarebbe solo una perdita di tempo, tanto vale lasciarli liberi.
In manette, invece, sono finiti in cinque: coloro, cioè, che avevano commesso reati anche dopo il 2 maggio 2006, data dell’indulto. Intercettazioni telefoniche e ambientali, pedinamenti e filmati avevano consentito ai pubblici ministeri Maurizio Laudi e Roberto Sparagna e ai carabinieri del Reparto operativo di Torino di individuare tutti gli appartenenti alla organizzazione. Un lavoro di intelligence che aveva pure consentito di risolvere un omicidio avvenuto nel 2003 al confine tra i comuni di Torino e Grugliasco. In tre erano finiti in manette per quel delitto, mentre il resto della banda continuava a dedicarsi allo spaccio di cocaina ed eroina in città: un chilo di droga alla settimana, per un volume d’affari di un milione di euro l’anno. Trentaquattro trafficanti che resteranno, però, liberi. «Quel giudice per noi ha sbagliato». Il procuratore capo di Torino, Marcello Maddalena, prende posizione sul mancato arresto di 34 trafficanti di droga e annuncia con forza che «la Procura ha già presentato ricorso in Cassazione».
Il caso di Torino è soltanto l’ultimo esempio di una giustizia in disarmo.
A lanciare l’allarme, qualche tempo fa, era già stato il procuratore generale di Monza, Antonio Pizzi: «Già ora rinunciamo a chiedere l’arresto cautelare di persone che prevediamo possano essere condannate a una pena inferiore ai tre anni, è la legge che ce lo impone». Sulla stessa lunghezza d’onda, anche i numeri uno delle Procure di Verona, Venezia e Catania. Ormai è allarme rosso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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