Politica

I giudici rifiutano di cacciare i clandestini

All’ala militante della magistratura italiana non piacciono le norme sull’immigrazione che il governo italiano ha democraticamente deliberato. È incontestabile il diritto dei togati d’avere al riguardo, come cittadini, un’opinione; e d’esprimerla. Ciò che a mio avviso vìola gli assetti costituzionali e la divisione dei poteri è la pretesa della magistratura di stringere l’esecutivo in una morsa: da una parte accusandolo - in perfetta sintonia con l’opposizione e con una scuola di pensiero “politicamente corretta” - d’avere adottato misure illegali e immorali; dall’altra opponendogli difficoltà organizzative che renderebbero impossibile per la magistratura e per la polizia l’applicazione delle norme adottate.
L’esito della manovra dovrebbe essere, secondo chi l’ha ideata, uno solo: ossia il naufragio di una legislazione che ha, fino a prova contraria, tutti gli avalli previsti dalla Costituzione. Più del Parlamento e del governo, prima della Corte costituzionale, i giudici ordinari si pongono come filtro d’ogni decisione. Rivendicando il dovere e il diritto di boicottare ciò che è loro sgradito.
Un esempio perfetto di questa tecnica del duplice niet s’è avuto in due interventi di toghe progressiste, Armando Spataro, procuratore aggiunto di Milano, e Giancarlo Caselli procuratore a Torino. In un seminario organizzato a Lampedusa da Magistratura democratica - partito di sinistra non ufficialmente riconosciuto come tale, ma esistente e potente -, Spataro ha valutato il problema dall’alto dei cieli virtuosi. I respingimenti, ha detto in sostanza, offendono le leggi nazionali e le leggi internazionali. Gli accordi stretti con la Libia sono una porcheria (in verità il primo accordo fu stipulato dal governo di Giuliano Amato). «La sicurezza - questa la sentenza di Armando Spataro - è importante, ma in Italia è diventata la maschera del razzismo». Con il che Spataro scaglia l’accusa di razzismo - che come quella di fascismo è multiuso - contro il governo dal quale, come funzionario dello Stato, dipende.
Caselli invece la butta sul pratico. Non ha ancora compiuto verifiche concrete. Ma, così a occhio, gli sembra che il carico di fascicoli abbattutosi sui «palazzacci» e sulla polizia per il reato di clandestinità non potrà essere gestito. I magistrati dovranno procedere selettivamente, ad esempio privilegiando i casi in cui la clandestinità è associata a un altro reato. Tesi piuttosto singolare da parte di magistrati che hanno sempre dichiarata ineludibile l’obbligatorietà dell’azione penale, e che avevano imputato al governo arroganza e ignoranza quando s’era proposto d’indicare i reati su cui sarebbe stato bene che le procure appuntassero la loro attenzione.
Non sono un fan del reato di clandestinità. Ho pensato - e anche scritto - che l’aver voluto dare gravità di reato - con le incombenze a seguire - a un’infrazione che come pena comporta la multa è stato un eccesso di zelo. Si è scelto l’enfasi stentorea a scapito della praticità. Sarà opportuno trovare soluzioni per gli inconvenienti che queste misure determineranno (o che magari non determineranno, in Italia non si sa mai). Esiste un Parlamento per fare le leggi ed eventualmente per disfarle. Invece i magistrati le leggi devono applicarle, anche quando non ne condividano la sostanza. Devono essere autorevoli, non possono pretendere d’essere ritenuti onnipotenti e onniscienti.

Di Padreterno ne basta uno.

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