I laureati sui libri umiliati dai dottori al merito di show

Marcello D’Orta

L’anno scorso mio figlio percorreva la via di Damasco quando all’improvviso una luce lo ha avvolto facendolo cadere da cavallo, e una voce dall’alto gli ha detto: «Giacomo, Giacomo, lo so che non mi perseguiti. Anzi, fai proprio il contrario, ed è per questo che ti chiedo di venire con me».
Giacomo s’è alzato da terra, ma non vedeva nulla. Così, guidato per mano, è stato condotto a Napoli, dove ha riacquistato la vista.
Presa la funicolare, ha raggiunto l’Università Suor Orsola Benincasa (dove era iscritto al corso di lingue) e ha redatto domanda di rinunzia agli studi. Stupita, la segretaria gliene ha chiesto ragione: «Ma come, hai sostenuto dieci esami, presi quasi tutti 30 e lode e te ne vuoi andare?». Mio figlio, ancora scosso dall’esperienza di Damasco, le ha risposto che non era nato a Tarso, non aveva mai perseguitato i cristiani, non ce l’aveva con quanti si chiamavano Stefano, e tuttavia il Signore voleva che predicasse il messaggio evangelico.
Così ha cambiato facoltà, s’è iscritto a Teologia e a settembre inizierà il periodo di noviziato, per diventare sacerdote fra qualche anno. Ha già dato sei esami, tutti superati brillantemente; altri trenta dovrà sostenerli per laurearsi, e fra questi trenta ci sono alcuni spauracchi che si chiamano «Ebraico biblico», «Greco biblico», «Teologia trinitaria» (non ci capì niente neanche sant’Agostino), «Escatologia» (sarebbe la Fine del mondo), «Filosofia teoretica» ecc. Manca solo «Analisi del cervello del Creatore», per far fumare le meningi del povero ragazzo.
Però, una volta divenuto «baccelliere in teologia» (cioè, una volta laureato), mio figlio potrà ben dire di esserseli meritati i complimenti di mamma e papà, e a sua volta ci dirà grazie (forse in aramaico) per averlo mantenuto a scuola.
Laurearsi dopo essersi iscritti all’università, pagate le rette, studiato e sostenuto esami (insomma: dopo essersi «fatti il mazzo così») sta diventando sempre più una perdita di tempo e di denaro. Oggi le persone si laureano ad honorem; si diventa avvocato, ingegnere, professore, architetto, medico honoris causa.
È una cosa convenientissima. A che servono questi esami? Oggi solo i fessi stanno curvi sui libri. Come testimoniano i vari Valentino Rossi, Luciano Ligabue, Lucio Dalla, Vasco Rossi, e tantissime altre star del cinema, dello spettacolo e dello sport, una laurea honoris causa non si nega a nessuno. Basta esser bravo sulle due (o quattro) ruote, sbattersi ad arte nel rap, mettere più volte in rete un pallone di cuoio.
Quando i Beatles furono nominati sir (per meriti, diciamo così, economici), molti baronetti doc consegnarono la «tessera» in segno di protesta. Se non fosse tanto difficile trovare lavoro, in Italia, se il numero dei disoccupati non fosse quello che è, suggerirei ai laureati «veri» dell’Università di Urbino (tanto per fare un esempio) di rispedire al mittente il titolo di dottore, dopo che lo stesso ateneo ha assegnato la laurea honoris causa in Scienze delle comunicazioni a Valentino Rossi.


Quando a Pirandello comunicarono l’assegnazione del Nobel, il drammaturgo riempì una pagina di «Pagliacciate, pagliacciate, pagliacciate».
Che direbbe di queste lauree che fanno ridere i polli?

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