I mafiosi: ci sono troppi ladri in giro

Stavolta è ufficiale. L'indulto varato un anno fa è stato una solenne fesseria. Il sospetto - qualcosa più di un sospetto - era già venuto ad autorevoli giornalisti e commentatori di cose giudiziarie. Ora lo ammettono perfino i boss di Cosa nostra. Dunque qui non si va più per ipotesi e speculazioni politiche. Qui è come se parlasse la Cassazione: quella del malaffare. E non si capisce se sia più notizia questa (dell'indulto inteso come una sventura perfino da chi dovrebbe dirsene soddisfatto) o non piuttosto lo svelamento di quei «riferimenti biblici» (quei numeretti che sembravano ricalcati sui versetti del Libro) che costellavano i «pizzini» di Bernardo Provenzano, il boss dei boss arrestato un anno fa nel casolare di Montagna dei Cavalli, dove trascorreva la sua latitanza travestito da buon pastore.
Indulto (e relativa costernata analisi dei boss) e Bibbia (usata come libro mastro dei capibastone) sono i due elementi svettanti dell'indagine che all'alba di ieri ha portato in carcere nove tra elementi di spicco e mozzorecchi di Trabia e Caccamo, nel palermitano.
Illuminante, a proposito di indulto, è la conversazione (intercettata dai carabinieri) tra Giuseppe Bisesi e Tommaso Libreri, quest'ultimo ritenuto capomafia di Termini Imerese. «Il problema dei ladri c'è sempre stato: non solo qua... da tutte le parti - dice avvilito e un filino incazzato Bisesi a Libreri -. Ora con quest'indulto che hanno dato siamo rovinati! A Palermo c'è una situazione che minchia! Farmacie, supermercati... che non dormono tranquilli. Ma che, scherziamo? È andata a finire a bordello, è andata a finire qua. È la città che porta il male al paese».
C'è da capirli, i famigli di don Provenzano. Con questa torma di ladruncoli in giro, e «gazzelle» e «pantere» scatenate sul territorio, come si fa a campare tranquilli? Uno, per esempio, va ad ammazzare un rivale, e rischia di finire nella rete dei carabinieri che fanno la posta a un ladro. Ma vi pare giusto?
Per non dire del superlavoro che il dissennato provvedimento comporta talvolta per le cosche. Vedi ad esempio la «necessità», innescata dalla clemenza del governo Prodi, di uccidere Silvio Napolitano (scarcerato proprio grazie all'indulto) e altri due picciotti che avevano osato rubare a certi commercianti e imprenditori protetti dai boss, e dunque due volte tormentati.
Quanto alla Bibbia, ecco di che si tratta. Nei «pizzini» che Provenzano usava per tenersi in contatto con i suoi uomini, comparivano dei numeri chiave. «Casuali e non legati al vecchio Testamento», dice il magistrato. Ovvero assegnati come promemoria. Che cosa indicavano quei numeri inseriti nei «versetti satanici» di Provenzano? Dei nomi, certo. Ma di chi? Le carte scoperte nel corso delle perquisizioni seguite agli arresti di ieri (insieme con il lavoro di intelligence avviato nei mesi scorsi) hanno infine svelato il dilemma.
Per esempio. Si consideri il seguente appunto sequestrato al boss l'11 aprile del 2006. «Benedica il Signore e ti proteggi. Il Signore faccia risplendere su di... E ti conceda la sua P. bd 65 N 25. XNN 164. Aless parente 121.30, gr. e pic. (Gius 76) (F 28)». Roba da far perdere il senno anche ai decrittatori americani che avevano a che fare con i codici giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. Ma con un po' di pazienza, ecco svelato l'arcano. Con il numero 25 il capomafia indica il boss Antonino Rotolo, mentre il capo mandamento Antonino Cinà è il 164. I latitanti Salvatore e Sandro Lo Piccolo, padre e figlio, sono il 30 (30, gr. e pic. ndr), e 28 il numero in codice assegnato al capomafia di Agrigento Giuseppe Falsone.
Anche stavolta, come fu per Totò Riina e la sua gang, sconcerta l'abissale ignoranza, e insieme la demenziale ingenuità di cui sono portatori alcuni degli arrestati che godevano del credito di Provenzano. Ecco per esempio la lettera scritta a Provenzano (e sequestratagli nel covo di Montagna dei Cavalli) da Giuseppe Bisesi, che con la proverbiale tracotanza e presunzione degli ignoranti scrive «in chiaro», certo di farla franca. «Da quando Giuffrè si è pentito e dopo hanno arrestato Totuccio Rinella qui non si è capito per un po' di tempo più niente. Una confusione totale», si lamenta Bisesi, boss emergente di Termini Imerese.
Nella lettera (vergata nello stile di un ripetente di terza elementare) il boss lamenta un'invasione di campo sul suo territorio di due «infiltrati», Fabrizio Iannolino e Liborio Pirrone, che puntano a imporre la loro legge sui mandamenti di Termini e Trabia. «...Questi si presentano prima a Termini e poi dopo un paio di giorni a Trabia dicendo ad alcuni amici che dal giorno che si erano presentati comandavano loro perché autorizzati da Palermo spendendo il nome delle persone di Palermo». Insomma, millantavano credito. O no? Nel dubbio, Bisesi chiede lumi al generalissimo Provenzano.
Nella sua lettera, dopo averlo informato sugli avvenimenti principali registrati nell'area (gli appalti, il pizzo, chi va e chi viene dal carcere, chi comanda e chi vorrebbe comandare, i vuoti di potere registrati dopo l'arresto di personaggi illustri e i pentimenti «pesanti», come quello di Nino Giuffrè) Bisesi (che in altre lettere si firma col numero 76) si inginocchia davanti al boss. «Lei - si legge nella lettera - se me lo vuole dire o no mi deve dire come mi devo comportare in queste situazioni perché sono responsabilità grosse. Io non faccio un passo se non lo sa lei in persona.

Lei a me mi conosce, lo so, ma mio zio e gli altri carcerati, mi hanno detto che non devo camminare se non l'ho (sic, ndr) sa lei».
Ecco: di fronte a criminali di questa caratura, l'unica cosa che non si capisce è com'è che spesso ci mettono anni, i carabinieri e i magistrati, prima di beccarli e schiaffarli in carcere.
Luciano Gulli

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