Sono storie nere. Storie di delitti efferati. E quindi di sentimenti abbietti e anche peggio, bassifondi brutti e ambienti alti. Fotografia di una Milano feroce, spesso e volentieri sotto la patina della tranquillità piccolo-borghese. Una Milano diversa da quelli che i milanesi conoscono e dove si ammazza non solo al sabato.
Passato di rapine, omicidi e stragi che Daniele Carozzi rispolvera, in duecento sanguinanti pagine, forte delle cronache nere dei quotidiani, quelle coi titoli a caratteri cubitali. Il volume dal titolo che strizza locchio a Giorgio Scerbanenco, Non si ammazza solo al sabato (Sartorio editore) (ri)legge una decina di celebri episodi: dalla feroce figura di Antonio Boggia - ultimo impiccato della storia della giustizia italica - al cinismo che domina la «Milano da bere» coinvolta nellassassinio del tombeur de femme Carlo DAlessio, passando attraverso gli spietati della banda Cavallero e la strage di via San Gregorio. Lunga sequenza di delitti descritti da Carozzi con rigore chirurgico, anche se in una versione un po romanzata ma sempre fedele agli ambienti, risultato possibile anche grazie a un ricco apparato iconografico.
Quello che riporta ad esempio alla Milano del 1859, dove sventola la bandiera giallo-nera della dinastia asburgica e la polizia parla tedesco. In quella Milano si consumano tre atroci delitti allinterno di uno scantinato di una piccola strada del centro, vicolo Bagnera, pertugio che sfugge alla vista di chi oggi percorre via Nerino e via Santa Marta.
Qui Boggia aveva preso in affitto un piccolo locale dove attirava le vittime, conoscenti con qualche disponibilità economica che invitava a partecipare ad una gara di appalto edile. Questi per la cauzione portavano con sé mille-duemila lire, Boggia li invitava nel suo locale e con una scure li colpiva violentemente alla testa. Così morirono e vennero sepolti nella stessa cantina Angelo Serafino Ribone, Giuseppe Marchesotti e Pietro el bauscia Meazza. Un ennesimo tentativo di ripetere il colpo gli andò male, il malcapitato fu soltanto ferito, e Boggia arrestato ne usci però prosciolto: aveva avuto, disse, un «estro». Nessuno sospettò degli altri delitti anche perché Boggia era considerato persona fidata e molto religiosa. Ma un suo ultimo «estro», vittima unanziana signora, gli fu fatale e, dopo lunghe e faticose indagini, la perquisizione del locale di via Bagnera portarono alla scoperta di tutti i delitti. La sentenza di morte, dopo un processo seguitissimo, venne emessa il 28 novembre 1859.
Delitti, quelli di Boggia, singolare coincidenza, mai avvenuti di sabato. Che cade, invece, il 13 agosto 1914, quando Milano scoprì che la prostituta Elvira Andreassi alias Rosetta fu uccisa da un questurino. Morte che ispirò una struggente canzone - «hanno ammazzato un angelo/ di nome Rosetta/ era di piazza Vetra/ battea la Colonnetta» - cantata per molti anni nei locali frequentati dalla mala meneghina. Quella stessa mala che inorridì quel 30 novembre 1946 quando una ventata di orrore allo stato puro cadde sullItalia intera: la notizia di un orrendo massacro scoperto in un appartamento del civico 40 di via San Gregorio, a due passi da porta Venezia.
Strage che fa entrare nel dopoguerra e che Carozzi nel suo libro Non si ammazza solo al sabato abilmente sfrutta per prendere la «temperatura», per capire come sia cambiata la società e il crimine come specchio del sociale. Già, i delitti degli anni Ottanta non sono i delitti degli anni Novanta e, senza forse, non saranno i delitti del Duemila.
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