Roma«Dei vaffa-vaffa non me li hanno detti. Qualche “vattene”, oppure “buffone”. Due o tre mi consigliano di tornare ad Arcore...». Si volta un secondo, batte un «cinque» con la mano, sorriso spiritoso: «Ciao bello!». Poi di nuovo ai giornalisti: «Oh attenzione, parla Bersani, andate ad ascoltare, ascoltate!». La notizia è che per la prima volta a una festa del Pd si ride. Matteo Renzi è il corpo estraneo a piazza San Giovanni, la tigre bianca dello zoo, ma non perde un colpo. La gente lo fischia e lui va a stringere le mani. Vede Franceschini e quasi lo prende in braccio. Circondato dalle telecamere che lo risucchiano verso un gazebo, fischiato da una parte della folla ma adorato dai ventenni del servizio d’ordine che gli stampano i telefonini in faccia, saluta in fila anche Gentiloni, Fioroni e Melandri, con una cordialità sdrammatizzante, anche questa aliena al repertorio Pd, si vede per pochissimo, ma lontano dai giornalisti, con Bersani, ma mantiene una gelida distanza - forse perché non lo vede - con Massimo D’Alema: «Mattè - gli fa un ragazzino bisbigliandogli sulla spalla - alle primarie voto te!».
Il sindaco di Firenze che «come tale va valutato», come lo ha definito D’Alema con una battuta che avrebbe seppellito un campione di zen, ripete insolente nella piazza di Roma, per filo e per segno, tutte le accuse al Pd: «Non si deve avere paura di chi ha idee. Sono qui perché questa è anche la mia casa. Affermo il diritto di stare qui e di portare idee difformi. Finora il modello è sempre stato che chi non è d’accordo con la linea se ne deve andare. Il partito deve essere democratico non solo nel nome ma nei fatti». Per vincere servono «voti nuovi», altrimenti non si vince, «si partecipa». Berlusconi? «Nei prossimi giorni andrà in pensione, ma deve andare in pensione anche l’antiberlusconismo». E quindi tutta l’opposizione basata sul controcanto. «Io e Berlusconi? Berlusconi parla del passato, io del futuro». E le ambizioni? «Mio padre, quando ero alla provincia, mi consigliava di stare dov’ero, e io sono andato al Comune. Ora mi dice: mica ti metterai a fare politica nazionale? E io...Sempre l’opposto».
Prima era stata una passeggiata nel fuoco per Renzi: un bel bagno di fischi e grida: «Vattene! Sei un comunista di destra!». Così è stato l’arrivo del sindaco fiorentino alla festa democratica. E poi le fotografie, i giovani a bocca spalancata, un vecchio simpatizzante che incita: «Bravo, bisogna unire, unire!». La piazza spaccata. La piazza «meravigliosa» di Bersani, come l’ha definita, piena solo per tre quarti, che un po’ ascolta il segretario, un po’ osserva con curiosità ostile o ammirata, a intermittenza, il giovane ribelle.
Quando Bersani inizia a parlare sul palco dopo l’inno nazionale, Renzi manda qualche messaggino con il cellulare e va via. Nemmeno finge di ascoltare, deve rientrare a Firenze per la messa in commemorazione «di Giorgio La Pira». «Una giornata terribile - spiega - c’ho la tramvia, e la messa. E poi hanno sparato in curia...» (il fallito attentato contro il vescovo Betori, ndr).
Ma il palco, il microfono, le parole di Bersani sono necessariamente incatenate al ruolo di attore non protagonista, con riferimenti impliciti al fantasma del retropalco: «Se ci chiamiamo Partito Democratico - una delle sue esclamazioni - vuol dire che non facciamo il verso al berlusconismo ma che facciamo l’inverso del berlusconismo!».
D’Alema liquida di nuovo il rottamatore: «Renzi è’ un fenomeno mediatico costruito dalla stampa». Bersani, a discorso finito, non dice Renzi chi? ma quasi: «Oggi mi godo questa splendida giornata», ripete ancora e ancora, come il ritornello di Vasco.
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