I mille volti di Volontè

Lucio Filipponio

Gian Maria Volontè, grande attore del cinema italiano, scomparso in Grecia nel ’94, mentre stava girando «Lo sguardo di Ulisse» di Theo Anghelopoulos, tornerà a rivivere sul grande schermo della Sala Cinelab, all’Isola Tiberina, per la rassegna dell’Estate romana «L’isola del cinema», dedicata ai grandi personaggi della celluloide. Da oggi a mercoledì 16 saranno proiettati, in ordine, il celebre spaghetti-western di Sergio Leone «Per qualche dollaro in più» del ’65, «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» di Elio Petri (vincitore dell'Oscar come miglior film straniero nel 1971), spietato ritratto dell’assurdità del potere, «La classe operaia va in paradiso» sempre di Petri, «Il caso Mattei» di Francesco Rosi (nel 1972 vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes) e «Porte Aperte» di Gianni Amelio, candidato all’Oscar come miglior film straniero e vincitore della Grolla d’oro nel 1990.
Trasformista, pignolo, impegnato, surreale. Un volto che, invece di esaltare i suoi tratti somatici, li ha piegati, sfruttati, frustrati in omaggio alla maschera, al personaggio, all’imitazione. A differenza delle facce ormai iconiche di Sordi, Gassman, Tognazzi, la faccia di Volontè forse non potrebbe mai entrare nella mitologia serigrafica di un Andy Warhol italico: le sue particolarità fisiche non sono diventate immediatamente riconoscibili, non sono state dominio dei media, ma hanno preferito rendersi immortali attraverso i personaggi interpretati. Un effetto di «anonimato» che risponde a una scelta precisa dell’attore che sposa la sua attitudine camaleontica e straniante verso la recitazione. La rassegna dedicata al compianto attore, Leone d’Oro alla carriera alla 50ª edizione del Festival di Venezia, intende ripercorrere un percorso artistico d’eccezione e al tempo stesso un pezzo importante di storia del nostro Paese. Ha recitato le maschere del potere e dell’impotenza d’Italia, i protagonisti della violenza, della mitezza paziente e delle zone torbide e di ambiguità del bene e del male, la reticenza. Una storia nelle storie. Così potrebbe definirsi l’insieme delle sue interpretazioni nella dimensione filmica. Volontè si è calato di volta in volta nei panni del bracciante, del bandito, dell’operaio, del professore, del soldato, del sindacalista, del rivoluzionario. E ancora del funzionario di polizia, dell’uomo politico, del manager pubblico, del filosofo, nei film dei Taviani, di Petri, di Rosi, di Montaldo, di Bellocchio, di Pontecorvo, di Loy, di Monicelli, e di molti altri ancora. Pochi attori hanno scelto le parti da interpretare con il suo rigore e deliberazione, entrando attivamente nel gioco della regia.

Il segreto della sua recitazione creativa stava proprio nella preparazione accurata, nell’approfondimento del copione, nella concentrazione per afferrare in profondità il carattere del personaggio sul piano psicologico, gestuale, mimico, linguistico, nella situazione in cui è calato. Questa capacità di entrare e uscire da figure molto diverse ci ha offerto personaggi lontani fra loro, ma accomunati dalla stessa forza di espressione del proprio tempo.

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