Mi torna alla mente quando l'attuale ministro Di Pietro era magistrato e durante le fasi di «Mani pulite» interrogò, in diretta televisiva, l'attuale suo primo ministro Prodi.
Il quale, stupito e rammaricato per le domande a lui rivolte, rispondeva continuamente: non so, non ricordo.
Il Di Pietro, allora, gli disse, incazzato: Professore vada pure e si faccia venire in mente tutto. Diversamente ho io il modo e il luogo adatti per farlo. Fu allora che il Prodi corse dal presidente Scalfaro e, in lacrime, lo supplicò che lo aiutasse dicendo: Presidente, mi aiuti poiché «Quellolà» mi distrugge. Non ricordo il motivo di tutto ciò. Lei, per favore, me lo può raccontare?
Come andò a finire? Possibile che il Prodi non sappia mai nulla e che dopotutto faccia carriera? Scusi per le troppe domande. Le ritengo importanti non solo per me.
La saluto cordialmente.
Lei, caro Greggi, certamente conosce - e chi non la conosce? - la formula nomen omen che grosso modo sta a significare che nel nome c'è un destino. Inaugurata nientemeno che da Cicerone nella sua arringa contro Verre (nome che vale letteralmente «porco»), la formula ha anche il risvolto paradossale, come ad esempio nel caso di un tizio che chiamandosi Ercole si rivela fisicamente una schiappa. In tal senso e riferita a testa quedra mai fu più appropriata. Perché fatti alla mano e al di là di ogni ragionevole dubbio se c'è uno che non è prode, questi è Prodi, Romano Prodi. Don Abbondio, al confronto, pare Orlando a Roncisvalle. Potremmo divertirci ad elencare le decine e decine di occasioni in cui manifestò la gelatinosa consistenza del suo tremebondo animo, ma quella che lei ricorda, caro Greggi, le batte tutte. Il tema dell'interrogatorio - 4 luglio 1993 - da parte dell'attuale suo alleato Di Pietro erano i fondi neri dell'Iri. Impossibile non ricordare la veemenza dipietrina, il pugno che calando sul tavolo cadenzava le domande: «E i soldi alla Dc chi glieli dava?». Pum! «Lei era capo dell'Iri», pum!, «possibile che non mi sappia riferire niente?». Pum, pum e pum! Una scena magistralmente descritta da Marco Travaglio al quale volentieri, diciamo pure con gioia, lascio la parola: «Prodi ripete di non saper nulla di tangenti. È intimorito, balbetta, chiede di poter tornare a casa, dove lo aspetta la moglie. (...) Dopo qualche altra domanda, Di Pietro lo congeda in modo brusco: dice di tornare a casa, ma di riflettere bene sui temi toccati nell'interrogatorio, sulle domande fatte e le risposte date. L'audizione è durata due ore. Il saluto è minaccioso: Ci rivediamo lunedì. Sappia però che potremmo essere costretti a farla continuare a riflettere lontano da casa».
Come è noto, uscito dalla Procura, Prodi non andò dalla sua signora, ma, squassato dalla tremarella, si recò nell'ufficio di Filippo Mancuso (il giudice alla Corte di Cassazione che in seguito, passata la paura, testa quedra tratterà da cialtrone e che in quel momento faceva parte del comitato giuridico dell'Iri) supplicandolo di togliergli di torno quell'iradiddio di Di Pietro. La parola, ora, la lasciamo a Mancuso: «Prodi era prostrato. Appena mi vede, mi si abbandona addosso e implora: Eccellenza, mi salvi. Aveva un affanno doloroso sul volto e non riusciva a parlare. Io non capivo. Alla fine si dà un contegno e dice: Sono stato interrogato pochi giorni fa da un giudice feroce, certo Di Pietro, che mi ha trattato come il peggiore criminale. Minacciava di non farmi tornare a casa. Si alzava e andava alla porta urlando intimidazioni contro di me, perché i giornalisti che aspettavano fuori sentissero. Quell'ossesso lo faceva per sputtanarmi». Avendogli Mancuso fatto presente che gli era impossibile venirgli in aiuto, Prodi tirò allora fuori l'asso di bastoni presentandosi, cappello in mano, al cospetto di Oscar e poi Luigi e poi Scalfaro. Non è dato sapere, caro Greggi, se il capo dello Stato sia o non sia rimasto insensibile al grido di dolore e di terrore di Romano Prodi. Un fatto però è certo: l'interrogatorio riprese non più in Procura, ma nei discreti ambienti d'una caserma dei Carabinieri.
Paolo Granzotto
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