Di fronte ai fatti di Rosarno ci si divide. C'è chi giustifica i calabresi con i fastidi provocati dall'immigrazione e chi li accusa di sordità umana. Sono entrambi esercizi retorici. Convivere tra diversi è duro. Se il rapporto tra indigeni e immigrati supera una certa soglia lo scontro ci sarà. Avviene a qualunque latitudine. Non c'è chiacchiera che tenga.
Millecinquecento stranieri a Rosarno erano troppi. Fossero stati un terzo non sarebbe successo nulla. Se poi i 1500 vivono in condizioni disumane, restano disoccupati per mesi, ciondolano randagi, è facile affiorino gli istinti peggiori di chi si sente assediato in casa propria.
L'accoglienza di cui si straparla scatta solo se chi accoglie ha la situazione in pugno. A Mantova, dove una bimba marocchina ha vegliato per ore la mamma morta, è in corso una gara di solidarietà per assicurare il futuro dell'orfana. In Calabria, in condizioni analoghe, succederebbe lo stesso. In tv è apparso un costernato parroco di Rosarno. Il prete ha condannato le violenze ma ha aggiunto che non rappresentano l'indole pacifica dei parrocchiani. A snaturarli è l'invivibilità della situazione. Questo chiama in causa l'autorità. Lo Stato che non regola i flussi migratori, i comuni impotenti, l'Ispettorato del lavoro che lascia correre. Ma anche i sindacati, inflessibili e arroganti in gran parte d'Italia però pusillanimi nelle regioni difficili e ciechi, per quieto vivere, di fronte al bieco sistema del caporalato.
A questa confusione, che già basterebbe, si aggiungono gli Illuminati: politici, giornalisti, sapienti dell'ultima ora. L'argomento preferito è che gli italiani sono un popolo di emigranti e dovrebbero perciò avere più buon cuore. Quando toccò a noi - dicono - altri Paesi ci hanno accolto consentendo a milioni di connazionali di crearsi un avvenire. Non fosse che per gratitudine dovremmo oggi essere aperti a tutti senza distinzioni di lana caprina tra legali e illegali, volenterosi e malintenzionati, ecc.
La leggenda va sfatata. Se gli italiani ripagassero con quello che hanno ricevuto, dovrebbero essere molto peggiori e più egoisti di quanto già non siano. L'emigrazione ha sempre avuto i contorni della tragedia. Quella italiana è costellata di pagine nere. Rinfresco la memoria.
Si cita talvolta, ma non si racconta mai, la faccenda di Aiguesmortes, oggi ridente cittadina provenzale alle foci del Rodano tra gli acquitrini della celebrata Camargue. Allora, era l'agosto del 1893, Aiguesmortes era povera e viveva della raccolta del sale. Contava quattromila abitanti più 800 italiani, in gran parte piemontesi, occupati nelle saline. Il lavoro sotto il sole ardente era massacrante: le mani tagliate dai cristalli del sale, le spalle scorticate dai canestri usati per il trasporto. Il ministero dell'Interno italiano li aveva ammoniti con una circolare: «Agli operai che si recano in Francia senza prima avere avuto assicurazione di trovarvi un lavoro e che non portano con sé sufficiente peculio, vanno rammentate le ben note difficoltà cui possono andare incontro e le misere condizioni alle quali verranno a ridursi». Ma gli emigranti ci erano passati sopra perché a spingerli, al di là dell'indigenza, era un motivo «politico»: evitare il servizio militare.
L'attività ad Aiguesmortes era saltuaria. Le frizioni con gli indigeni quotidiane. Avevano sempre qualcosa da rinfacciare, considerandoci sporchi, brutti e cattivi. Così nacque il pandemonio. Mentre un torinese mangiava sul bordo della salina, un francese gli gettò della sabbia sul pane. L'uomo non reagì e pulì il pane con il fazzoletto. Poi, per sciacquarlo, usò l'acqua potabile, poca e razionata, in dotazione delle maestranze. Il francese, inviperito, disse: «Se vuoi lavare il fazzoletto, pisse lui dessus, che tanto è lo stesso per un italiano come te». L'altro brandì un coltello e replicò: «Me ne fotto di te e di tutti i francesi». È il dagherrotipo color seppia dei dispetti di questi giorni tra africani e rosarnesi.
La cosa non finì lì. L'indomani, gli italiani fecero una spedizione punitiva contro i locali. Ci scapparono due morti a detta delle autorità. Ma pare non fosse vero. Il giorno successivo, cinquecento francesi iniziarono la caccia all'italiano: «A morte l'Italia. Fuori gli orsi italiani». Intervennero i gendarmi sparando a vista sugli immigrati che si rifugiarono nelle paludi. Molti restarono intrappolati mentre gli inferociti abitanti di Aiguesmortes lanciavano pietre su di loro. Una lapidazione a regola d'arte. Annegarono a decine. Il tiro al bersaglio durò due giorni. Otto ospedali locali rifiutarono di accogliere e curare i feriti. La conta dei morti non dette risultati certi. Chi disse che gli italiani uccisi erano cinquanta, chi cento. Secondo la Treccani furono 400. Questo in Francia e per citare un solo episodio.
La discriminazione degli italiani emigrati in Usa fu più sottile, duratura e crudele. Gli americani, che hanno mentalità razziale, si posero il problema se gli italiani fossero o no dei bianchi. Per decenni la nostra «bianchezza» non fu affatto scontata. Gli emigranti che spesso avevano visi «biscottati» (cotti dal sole) furono assimilati agli afroamericani e vennero perciò chiamati «guinea». Sentendosi autorizzato dai lambicchi di un italiano mondialmente noto, Cesare Lombroso, il Bureau of Immigration distinse tra immigrati del Nord classificati come «celtici» e del Sud considerati «iberici». Nell'aureo dibattito si inserì l'antropologo George A.Dorsey il quale, incaricato dal Chicago Tribune di andare nel Belpaese per dire una parola definitiva, stabilì che il meridionale aveva «ascendenze negroidi». Gli americani, alla fine, concordarono su questa conclusione: «Gli italiani sono bianchi di colore e non di razza». L'opinione restò ferma fino agli anni Trenta del Novecento ed ebbe il suo peso nell'ingiusta condanna alla sedia elettrica degli anarchici Sacco e Vanzetti.
Dunque, con buona pace del benpensantismo illuminato, non è certo nell'emigrazione vissuta sulla sua pelle che l'italiano troverà ispirazione per l'accoglienza. Solo una politica realistica potrà indurlo. Senza chiedergli l'impossibile.
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