«I nostri figli? Stranieri in patria»

Due bambini italiani all’ultimo banco, seduti in ultima fila, sembra quasi non vogliano farsi notare. Intorno a loro compagni di classe bengalesi, cinesi, marocchini, cingalesi, romeni e albanesi. Normali conseguenze del melting pot, segnali visibili di tempi sempre più multietnici, ma anche spie di un malessere dettato da un’emarginazione inedita e inaspettata, che funziona all’incontrario.
Succede nella capitale, nel quartiere Esquilino come nella periferia Est. Diventa la regola in quelle zone un tempo popolari, come via dell’Acqua Bullicante, dove molti romani si sono trasferiti altrove e negozio dopo negozio, appartamento dopo appartamento, gli stranieri hanno comprato tutto ciò che c’era da comprare.
Il dilemma «pesce o non pesce al venerdì» diventa allora questione di lana caprina per i genitori italiani che hanno iscritto i loro figli alla scuola elementare Carlo Pisacane, dove il 76 per cento degli alunni italiano non è. «Qui si festeggia il Ramadan, a mensa si servono i menu etnici, ma a Natale per fare un presepe come si deve abbiamo dovuto insistere, gli altri anni erano microscopici», si sfoga una madre. Non è razzismo, solo imbarazzo quotidiano di chi non sa cosa rispondere quando un bambino chiede «perché Gesù è più buono di Maometto?». O quando lo stesso bimbo rifiuta il prosciutto e preferisce la bresaola, «perché Ramir mangia solo quella».
Problemi di identità che si riflettono sulla sfera dell’apprendimento, dove diventa evidente che i piccoli che a stento masticano l’italiano facciano fatica a comprendere la storia, la geografia e la matematica. «Mia nipote Giulia frequenta in un altro istituto la stessa classe di Tiziana - ci racconta un genitore - senza esagerare posso dire che a livello di programma hanno fatto il doppio. Temo che mia figlia si porterà per sempre dietro questo ritardo».
Le difficoltà non sono dunque sul piano della convivenza, almeno non solo. In via Bixio, a qualche centinaia di metri dalla stazione Termini, c’è la scuola elementare statale Di Donato, dove i due terzi degli iscritti sono stranieri, soprattutto bengalesi e cinesi. «E siamo noi romani a doverci adattare - si infervora un nonno - sembriamo dei pecoroni, non sappiamo imporci. Però quando andiamo nei loro paesi se non seguiamo la loro religione sono guai seri». E c'è chi ha addirittura scelto la strada della rassegnazione, come Mara, perché «ormai è andata così, tanto manca solo un anno perché mio figlio finisca». O chi sceglie rimedi estremi, assicurando che «Giorgio l’anno prossimo non verrà qui, perché con tutto il rispetto per gli immigrati non è giusto che in una classe di trentadue bambini gli italiani siano solo quattro e debbano stare per i fatti loro».
Eppure gli stranieri sono i primi a predicare la necessità dell’integrazione. Dice Asharf, pakistano: «Siamo in Italia e ci dobbiamo adeguare a tutto, anche al pesce il venerdì». «Se non ci sta bene possiamo sempre tornare nel nostro Paese. Il segreto è imparare a rispettare le tradizioni di chi ci ospita», aggiunge Loredana, romena. Questo almeno in teoria.

La pratica la si vede intorno alle dieci del mattino davanti alla Pisacane di via Acqua Bullicante, quando una classe lascia la scuola per partecipare a una visita guidata. Tenendosi per mano, un po’ più indietro rispetto agli altri, gli unici due bambini italiani chiudono la fila.

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