I personaggi e i fatti che raccontano la storia del nostro Paese in una serie di immagini d'autore

D ue apostoli in un uomo solo: ci doveva pur essere qualcosa di speciale. Pietro eppoi Paolo è stato Mennea, una sorta di spot che non ha bisogno di interpretazione. Dici Mennea, basta la parola e ti tuffi in Gianni Brera che lo tocca sulla crapa e gli dice: ragazzo, tu vieni dalla Mesopotamia. Ma poi si innamora di quello che in serata di scarsa luna sarebbe stato solo uno stortignaccolo italiano, e in giorno di grazia diventò la fatica esaltata nel dolore, o anche lo sberleffo di Apollo che non ti volle mai suoi simile. Pietro Mennea è stato il migliore degli italiani possibile, ma il peggiore da cui prendere esempio. Il peggiore e migliore nella stessa lente: ha insegnato che nulla è proibito, basta volerlo, allenare la fatica con l'allenamento, usare la fatica per sognare. Ma non è da tutti. Solo per chi ha la testa prima del cuore, il cuore prima delle gambe, le gambe prima del narcisismo, fatica da bestia e monacale adesione alle sofferenze imposte dal tecnico. Ci ha detto che non è necessario essere Einstein, ma bisogna essere Mennea. Difficile imitarlo. Certo: magro, storto, forse un po' contorto. Chi ha vinto? Picasso o madre natura?
Pietro eppoi Paolo aveva il talento del sapere di non avere talento. Storie di un'altra Italia. Da ricordare oggi, che i 60 anni sono varcati, capelli brizzolati, parlata inconfondibile, e quel: «Ora ti insegno io» che resiste e non è un «mo' ti spiego» ruspante, ma il ditino alzato che è stato foto storica, esaltazione, colpo di frusta a chi non stava dalla sua parte. C'è ancora qualcosa di quel ragazzo che camminava sulle punte, urticante e modesto, infernale nella primitiva lotta contro la fatica. Brera lo timbrava: guida noi brutti alla conquista. Oggi cosa concludere? Ci ha insegnato che la corsa non è mai finita.
Pietro non è mai stato Pietruzzo, secondo dizione di un Sud un po' folkloristico. Ha mantenuto la dignità del ragazzo di Puglia, definito la Freccia del sud quando invece era la Freccia d'Italia. Ha sempre avuto la rabbia di chi stava laggiù. Se n'è cibato per rispondere a Steve Jobs che la fame bisogna averla dentro. Era figlio di un sarto, ha sempre corso: in bici per andare a giocare a pallone, in auto quando faceva il collaudatore d'auto veloci a 14 anni, e intascava 500 lire se le cose andavano bene, eppoi ha usato il mezzo economicamente meno dispendioso: gambe provate dalle fatiche più devastanti. Ha fatto due conti: 5482 giorni di allenamento, 528 gare, un oro e due bronzi olimpici, tre europei, medaglie europee e mondiali, il primato del mondo dei 200 metri (19”72) durato un'eternità, ultimo recordman mondiale bianco dello sprint, 5 olimpiadi e 4 finali. Nessuno potrà staccare il ricordo dalla corsa- record di Mexico City, o dalla straripante rimonta a Mosca '80: Alan Wells tre metri avanti, Pietro penultimo all'uscita dalla curva.

Ma poi va, va, e va: cattiveria e gambe come un motorino per prendersi quella medaglia d'oro. Il ditino alzato. Qualche tempo dopo Muhammad Alì si stupisce: «Ma tu sei bianco?». La risposta è un uppercut: «Ma nero dentro».

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