da Milano
Ma qual è il rapporto tra la Fiat e gli Usa? Cosa cè dietro le critiche del Wall Street Journal che per primo si è permesso di mettere in discussione il golden touch di Mr. Marchionne? Insomma, su che basi si imposta il rapporto tra il più americano dei nostri manager, Marchionne appunto, e un mercato che detta legge? Ieri abbiamo ricordato come la Fiat abbia intenzione di uscire dalla Borsa di New York. Un piccolo sgarbo alla community finanziaria più importante del mondo. Il rapporto della Fiat con gli Usa, chiusa e venduta la casa degli Agnelli a Park Avenue, passa per un tratto paradossalmente ancora «più americano».
E poco importa se nei prossimi mesi arriverà il «delisting» del titolo torinese dalla Borsa di New York. Troppo oneroso mantenere la quotazione a Wall Street, dopo le stringenti norme di controllo seguite al crac Enron che hanno riversato fiumi di dollari sui conti degli studi legali di Manhattan. E così, parallelamente allo sviluppo nei mercati asiatici e nellEst europeo, a Torino ci si prepara a dare più peso alla presenza del Lingotto negli Usa. In questo momento, dopo che nella prima metà degli anni 80 Fiat e Iveco hanno abbandonato la scena nordamericana, a rappresentare il gruppo italiano è soprattutto Cnh (macchine agricole e movimento terra), mentre Ferrari e Maserati giocano un ruolo determinante a livello dimmagine più che di contributo economico.
Lo scorso anno, su 52 miliardi di fatturato, lapporto delle attività americane di Fiat Group è valso per circa 6,3 miliardi, con Cnh a recitare ovviamente la parte del leone. Ma ora è arrivato il momento di riportare sulle strade di New York e Los Angeles le vetture Alfa Romeo (dal 2009) e più avanti forse anche la 500 sulla scia dei successi di Mini e Smart, nonché i camion Iveco (non prima del 2010 e sicuramente con un partner locale). Sono ventanni che gli americani non guidano più unauto italiana «normale», che non sia cioè una Ferrari, una Maserati o una Lamborghini (oggi dellAudi). Per i camion, invece, in passato Iveco ha pagato lassenza nella gamma di un vero gigante della strada, mentre ora è in grado di presentarsi con unofferta a 360 gradi.
Ma un ruolo chiave nel successo della strategia torinese negli States lo avrà proprio l«americano» Marchionne, colui che ha assestato due duri colpi ai mostri sacri dellauto «made in Usa». Vinta la sfida sulla «put option» con la GM, Marchionne nei mesi scorsi è riuscito a portare il Lingotto a valere più di GM e Ford insieme, quasi 24 miliardi di euro contro il valore medio di 5,7 miliardi del 2004. In verità la Fiat ha avuto un altro «americano» al suo vertice, quel Paolo Fresco, già braccio destro di Jack Welch alla GE, abile nelle pubbliche relazioni e artefice della trappola «put». Marchionne, rispetto allex presidente Fresco, è più operativo, orientato al business, meno incline alle pr e allergico ai «salotti». È capace di volare in America da Torino, incontrare chi deve incontrare, e ripartire subito dopo per lItalia. Un manager touch and go, insomma. «Nei suoi atteggiamenti è più americano che europeo - dice chi lo conosce bene - e, rispetto ai suoi predecessori, negli Stati Uniti è proprio a casa sua. Conosce di persona i capi delle banche più importanti ed è il beniamino degli analisti». Gli stessi da cui lamministratore delegato della Fiat si aspetta la promozione del Lingotto a investment grade («mi attendo un upgrade entro lanno, poi vedremo», ha confessato al Giornale). Anche se alcuni di essi, dalle colonne del Wall Street Journal, si sono chiesti quanta benzina ci sia ancora nei serbatoi della Fiat di Marchionne. «Tutti dubbi - afferma un analista italiano - mossi da una visione classica della Fiat, quella cioè di un gruppo solo automobilistico.
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