Cultura e Spettacoli

Con i pirati web tutti ricchi tranne la musica

La discografica Caterina Caselli spiega perché lo scambio dei brani su internet è solo in apparenza gratis: si paga chi offre connessione e servizi. L’unico a non incassare è l’artista: così si danneggia l’industria e la ricerca di nuovi talenti

Con i pirati web tutti ricchi tranne la musica

Tecnicamente il cosiddetto «peer to peer», lo scambio di file su internet, è una grande innovazione figlia della rete. Finché ci si scambia opinioni, idee, valutazioni è un grande strumento di condivisione. Se si usa per scambiarsi «tracce» audio o video o testuali tratte dalla propria biblioteca fatta di dischi, dvd e libri i cui autori, editori, produttori sono stati remunerati tramite regolare acquisto credo che rientri nella normalità di uno scambio, nel cosiddetto «fair use» (concessione d’uso) coperto in qualche modo anche dalla raccolta dei diritti di copia privata. Quando invece, come nella stragrande maggioranza dei casi, si usa questa opportunità tecnologica per scambiare milioni di files di audio, video e testi che non sono stati regolarmente acquistati (nemmeno una volta!) allora siamo di fronte a una distruzione di valore economico e morale. Come risolvere la questione è la domanda da dieci miliardi di dollari (quanto ha perso la sola industria discografica mondiale negli ultimi sette anni) perché ci sono in gioco gli interessi colossali dell’industria delle telecomunicazioni e dei nuovi giganti che presidiano la filiera digitale (providers, motori di ricerca, produttori di hardware e software di rete). L’industria che produce i contenuti sta pagando un prezzo troppo alto all’ideologia del «digitale e tutto gratis» mentre dovrebbe essere remunerata proprio per il contributo che dà allo sviluppo del traffico in rete, e messa in condizione di continuare a investire. È nell’interesse anche dei provider poter contare su nuove produzioni perché l’attuale consumo esasperato dei repertori degli ultimi cinquant’anni prima o poi finirà. Quindi penso che serva un contesto legislativo chiaro. Va ribadito a ogni occasione che «chi trae profitto dall’uso di materiale protetto dal copyright deve essere obbligato a pagarlo il giusto». Credo che si debba lavorare su più piani e che ci vogliano anche interventi, come la nuova legge francese Hadopi 2, che riaffermano i principi e introducono sanzioni per chi li viola consapevolmente. Poi credo che vadano coinvolti i «mediatori tecnologici» che non possono continuare a sottrarsi alle loro responsabilità, perché, per quanto cresca l’utilizzo legittimo della rete, la grande maggioranza degli usi resta illegale. A quel punto si potrà cominciare a sperimentare nuove modalità di produzione e distribuzione più adatte alla nostra epoca. E poi bisogna sostenere e incentivare il lavoro di chi sviluppa la «creatività e il talento». In questo senso fenomeni come Lily Allen o Arctic Monkeys che lanciati attraverso il web oggi trionfano sul mercato fisico non sono la regola ma piuttosto le eccezioni. In questo quadro, i danni sono diretti e molto importanti. Secondo dati Ifpi 2009 solo in Gran Bretagna nel 2007 ci sono stati 890 milioni di download musicali illegali contro i 140 milioni di download legali a pagamento, un rapporto di 6 a 1. Il mercato italiano della musica, che nel 2001 valeva più di 600 milioni, è ormai sceso sotto i 200 milioni di euro l’anno. Poi ci sono i danni collaterali. Secondo l’ultima indagine dell’Unione Europea un terzo degli europei fra i 16 e i 24 anni non è disposto a pagare per ciò che trova in rete e il 50 per cento afferma che non ha intenzione di cambiare atteggiamento neppure di fronte a modalità di pagamento più agili e contenute. Altre indagini sottolineano come «il 70 per cento dei consumatori digitali di età compresa fra 15 e 24 anni non si senta in colpa a scaricare gratuitamente musica dalla rete; il 61 per cento non ritiene di dover pagare per ascoltare musica, e mediamente il 43 per cento della musica posseduta e ascoltata in questo gruppo di età non è stata pagata». Sono tutte cose che cambiano la percezione dei concetti di «proprietà», «condivisione» e soprattutto di «valore». Infine ci sono gli artisti che inneggiano al download gratis a tutti i costi. Penso che siano sinceri. Ma penso anche che possano permetterselo perché si tratta in gran parte di artisti affermati, che contano su almeno venti-trent’anni di normale carriera in cui hanno guadagnato moltissimo e che permette loro di gestire oggi sia una remunerativa attività concertistica sia attività editoriali in proprio. Io resto convinta che l’ideologia della gratuità sia pericolosa e distruttiva. Fra l’altro è anche falsa, perché si paga per accedere a Internet, per navigare, per scaricare, per chattare, per frequentare i social networks, per consumare contenuti.

Solo che ricavi (e relativi profitti) vanno agli intermediari tecnici e distributivi e non ai produttori dei contenuti.
*Musicista

e discografica

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