I racconti del maresciallo che ispirò Mario Soldati

«S a conca non funzionada», dice nel suo dialetto antico, «la testa non gli funziona». La differenza fra l’Italia del maresciallo Massimo Gatto, comandante della stazione dei carabinieri di Parabiago (Milano) accusato d’aver violentato o molestato una decina di donne trattenute in caserma, e l’Italia del maresciallo Salvatore Careddu è tutta qui. Nell’Italia raccontata da Mario Soldati macchiarsi di crimini così odiosi era considerata una cosa da pazzi, come riassume Careddu, allargando desolato le braccia. È lui, Careddu, 75 anni, sardo di Olbia, ad aver ispirato allo scrittore torinese i Nuovi racconti del maresciallo, séguito dei Racconti del maresciallo, entrambi trasformati dalla Rai in due serie televisive di successo, nelle quali la figura di fantasia del maresciallo Gigi Arnaudi fu interpretata prima da Turi Ferro e poi da Arnoldo Foà.
Il maresciallo Careddu, alias Arnaudi, conserva sopra l’armadio della camera, avvolta nel cellofan, la valigia di cartone legata con lo spago che nel 1956 lo accompagnò dalla Sardegna al continente, destinazione Torino, scuola allievi carabinieri di via Cernaia. Il berretto invece lo tiene ancora accanto al letto. Ha cessato l’attività - «non scriva “è andato in pensione”, la prego, un operaio della legge non va mai in pensione» - nel 1996, dopo aver vestito per 40 anni la divisa dell’Arma: «Credo che nessuno mi abbia mai visto girare per strada in borghese». Ma avrebbe potuto indossare indifferentemente la fascia tricolore del sindaco, la tonaca del parroco, il camice bianco del medico condotto o del farmacista, il grembiule nero del becchino, per come sapeva incarnare con identica passione in un’unica persona tutti i ruoli dell’autorità costituita e del servizio civile.
A dispetto dei limiti d’anzianità già raggiunti, nel 1992 aveva chiesto e ottenuto dai superiori di restare in caserma per altri quattro anni: «Fosse dipeso da me, sarei rimasto ancora. La divisa è cucita sulle pelle. Ho cercato di rimandare il giorno in cui me la sarei dovuta strappare di dosso». Quel giorno, mentre svuotava i cassetti della scrivania dell’ultima compagnia che aveva comandato, Sestri Levante, gli giunse un telex dall’amico Soldati. Due sole parole: «Sei meraviglioso!». A Sestri s’è fermato ad abitare per sempre. Ogni mattina Lucky, il cagnolino di Massimo Solari, proprietario dell’hotel Mira affacciato sul lungomare, va a prenderlo dall’altro lato della strada e lo scorta fino ai tavolini del ristorante all’aperto, che sono diventati il suo nuovo ufficio, ma sarebbe più esatto dire confessionale, dal quale l’ex maresciallo con amabilità dispensa consigli, pacifica animi, sbroglia matasse, rivolge moniti, asciuga lacrime.
Careddu ha servito lo Stato senza mai impugnare la pistola, per il semplice motivo che la fondina appesa al suo cinturone è sempre rimasta vuota: «Ho avuto anche qualche rimbrotto dai superiori, per quest’abitudine. Solo una volta sparai in aria a Genova, lungo il Bisagno, per dissuadere un ladro in fuga». E oggi confessa, senza remore, che quando proprio doveva arrestare qualcuno, spesso piangeva. Come gli capitò un anno prima della pensione, alle 3 di notte, mentre chiudeva in camera di sicurezza Carlo Nicolini, un ragazzo molto introverso, figlio unico: poche ore prima aveva sparato con un fucile al padre Mario, medico, e alla madre Letizia, una ex suora che aveva lasciato il velo per sposare il clinico conosciuto nelle corsie dell’ospedale dov’era infermiera. Siccome i genitori non si decidevano a morire, il giovane li aveva finiti a coltellate. Poi aveva dissezionato i corpi con una mannaia. «Decine di pezzi. I cuori li ritrovammo solo dopo qualche giorno. Pensai a un proverbio della mia terra: “Riu mudu, trazzadore”, fiume muto, trascinatore. Gli feci togliere la canottiera inzuppata di sangue e lavare le mani. Al mattino gli portai un caffè. Ringraziò. Prima di finire nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, mi pregò di recarmi a dar da mangiare alle pecore che allevava. Lo farò, gli risposi. Mi parve sollevato».
Quello stesso anno Giuseppe Frediani, detto Pinin, barista di Riva Trigoso sottoposto a intervento chirurgico per un tumore e convinto di dover morire, uccise la figlia Federica, 39 anni, handicappata dalla nascita: temeva che nessuno si sarebbe preso cura di lei. Poi rivolse la pistola contro se stesso, ma l’arma s’inceppò. Nella tasche gli trovarono una lettera: «Affido la mia famiglia al maresciallo Careddu». Commenta l’ex sottufficiale: «Quando a Mario Soldati raccontavo gli episodi più cruenti del mio lavoro, mi fermava con un moto di disgusto: “Salvatore, lascia perdere. Di queste cose non sarei mai capace di scrivere. Troppo sangue! Viviamo tempi atroci e a me non va di narrarli”».
Come vi conosceste?
«Grazie a un amico comune, Mario Fiori, un rappresentante di commercio di Tellaro, il borgo marinaro di Lerici dove Soldati s’era ritirato a vivere. Lo scrittore venne a trovarmi a Sesta Godano, dove all’epoca comandavo la stazione. Il vino di Montale, il suo racconto pubblicato nel luglio di trent’anni fa sul Corriere della Sera, gli fu ispirato dal Gavi che gli feci bere in un’osteria di quella piccola frazione della Val di Vara, dove un contadino soprannominato Giulin era morto rovesciandosi col trattore. Qualche tempo dopo volle tornare a visitare il cimitero. “Ma no, no! Porta male”, si opponeva Fiori. “Sciocchezze”, replicò secco Soldati. C’era con noi mia figlia, una bambina, che se ne uscì con un’esclamazione: “Intanto oggi è morto uno!”. Lo scrittore rimase molto colpito da quell’avverbio, “intanto”, e da quella frase così severa rispetto all’atteggiamento superstizioso di Fiori. “Meravigliosa profondità dell’infanzia! Perché la perdiamo così presto?”, commentò. Ma più ancora fu impressionato dal fatto che Francesca avesse deposto su una tomba dei fiori di campo raccolti per strada. “Tua figlia sa leggere?”, mi chiese. No, gli risposi. “Allora perché ha scelto proprio quella sepoltura?”. Non l’ho capito neppure io, soggiunsi. Ed era proprio la tomba del povero Giulin».
Vi vedevate spesso?
«Una volta la settimana o andavamo a cena io e mia moglie da lui a Tellaro, o veniva lui con la consorte Jucci a Sesta Godano. Voleva che mi presentassi sempre e solo in divisa. Mentre parlavo prendeva appunti su un taccuino».
Parlavate solo a cena?
«Ah no, era capacissimo di telefonarmi anche alle 2 di notte, il momento che Mario preferiva per la scrittura. Era molto pignolo, ci teneva a verificare i dettagli. Per esempio mi svegliò per chiedermi come mai il cadavere di un uomo, che avevo rinvenuto nel bosco, fosse ancora in buono stato di conservazione a quattro giorni dal decesso».
Ha conosciuto anche Giovanni Soldati e la compagna Stefania Sandrelli?
«Certo, e anche gli altri due figli, Michele e Wolfango. Siamo tuttora amici. Giovanni mi confidò che sua madre non era molto contenta del legame sentimentale con la Sandrelli. L’attrice aveva appena girato La chiave con Tinto Brass, film che non era piaciuto neppure al padre di Giovanni. Non preoccuparti, lo rincuorai, parlo io con tua mamma. E così feci».
Che cosa trovava Soldati di tanto speciale in un maresciallo dei carabinieri?
«In un brano del romanzo Il vero Silvestri parla di due amici che conversano nella quiete notturna. Contemplano il mondo, la storia, l’eternità. Sfiorano il mistero dell’esistenza, come se stesse per cadere il velo che la avvolge. Si sentono ancora vivi, ma nello stesso tempo quasi morti, e tuttavia sono felici di condividere l’unica certezza possibile: la fiducia l’uno nell’altro, senza domande e senza offerte, senza possesso e senza riconoscenze, senza gelosie e senza paure. C’era tutto questo, fra noi».
Ma lei perché scelse di entrare nei carabinieri?
«Per amore della giustizia. Ho sempre detestato le prepotenze. A 13 anni giocavo con i miei amici a improvvisare processi, ma l’unico ruolo che mi piaceva era quello dell’avvocato difensore. Giudice mai. Mio padre era un vecchio socialista, aveva fatto la Grande guerra. Era fuochista sul transatlantico Regina d’Italia, che trasportava gli emigranti italiani a New York. Siccome s’era opposto alla linea ferroviaria che il regime fascista stava costruendo fra Olbia e Golfo Aranci, vennero gli squadristi da Civitavecchia, lo bastonarono e lo riempirono d’olio di ricino. Il suo sogno era che almeno uno dei suoi otto figli diventasse carabiniere. Io, il penultimo, l’ho realizzato».
Come si veniva arruolati?
«Si presentava domanda in caserma. Poi il maresciallo raccoglieva informazioni. Il candidato non doveva avere macchie fino al settimo grado di parentela. Per questo motivo, fino agli anni Ottanta, i figli di padre ignoto non potevano diventare carabinieri. I regolamenti erano severissimi. Nell’ottobre 1962, mentre ero in servizio a Cicagna, conobbi Marisa, la mia futura moglie, originaria di Chiavari, che abitava davanti al laboratorio del sarto dov’ero andato a farmi sistemare la divisa. Fui subito trasferito al nucleo radiomobile di Genova perché era vietato innamorarsi di una ragazza del luogo in cui si prestava servizio. Non ci si poteva sposare prima d’aver compiuto 30 anni. Con Marisa fui molto onesto: “Guarda che sono già ammogliato con l’Arma”».
Che differenze vede fra il maresciallo Arnaudi di Soldati e il maresciallo Rocca interpretato da Gigi Proietti?
«Nessuna. Entrambi affrontano i problemi delle persone e cercano di risolverli. Se due coniugi o due confinanti litigavano, li convocavo prima separatamente e poi insieme, e li lasciavo parlare. Non aprivo mai bocca: ascoltavo e basta. Alla fine tiravo le conclusioni e componevo il dissidio. Ci voleva poco. Oggi in Italia tutti parlano e nessuno ascolta, per questo si scannano senza capirsi. Poi purtroppo è arrivata la droga e ha squassato tutto».
Ha mai rischiato la vita?
«Solo una volta, a Genova, durante i moti di piazza del 30 giugno 1960 contro il governo Tambroni. Il tenente Carlo De Luca riuscì a convincere i manifestanti a far tornare indietro due camion carichi di bottiglie vuote che volevano scagliarci addosso. Ma uno dei facinorosi tentò di spaccarmi la faccia con un uncino usato dagli operai portuali per afferrare le catene delle navi. Allora non eravamo bardati come oggi, non avevamo gli scudi antisommossa. Mi vidi il rampino a un centimetro dagli occhi. Due giorni dopo, mentre ero in libera uscita in via Prè, riconobbi il mio aggressore. Lo fermai. “Non so nemmeno io perché l’ho fatto, mi scusi”, balbettò. Lo lasciai andare».
Per quale motivo oggidì le indagini si trasformano spesso in casi insoluti o controversi oppure portano alla verità solo dopo molti anni, vedi i delitti dell’Olgiata, di via Poma, dell’Università La Sapienza e poi di Cogne, Arce, Garlasco, Perugia, Brembate, Avetrana?
«Noi raggiungevamo il luogo del delitto in bicicletta e non avevamo a disposizione né i Ris né il Dna. Adesso arrivano a sirene spiegate e poi aspettano gli esiti delle prove di laboratorio. Sbagliato. È molto più importante ascoltare i testimoni. Ce lo ripetevamo sempre, Soldati e io: ragionamento, immaginazione, intuizione. Questi sono i tre strumenti dell’investigatore. La prima volta che vidi al telegiornale i servizi sull’uccisione di Sarah Scazzi, dissi a mia moglie e al proprietario dell’hotel Mira: guardate il volto della cugina, quella sa qualcosa. Non era una faccia sincera. Mi pare di non essere andato molto lontano dal vero».
Come mai ci sono più bidelli, 165.000, che carabinieri, 112.000?
«Forse perché un carabiniere è tale 24 ore su 24?».
Nel Rapporto Eurispes Italia 2011 l’Arma è al primo posto nella fiducia dei cittadini, con un livello di consenso pari al 72,6%, seguita dalla Polizia di Stato col 66,8% e dalla Guardia di finanza col 64,1%. Il presidente della Repubblica è al 68,2%, la magistratura al 53,9%, la Chiesa al 40,2%, il Parlamento al 15%. Perché, secondo lei?
«Perché l’Arma è paragonabile alla famiglia: una delle strutture portanti d’Italia. Da Punta Helbronner a Lampedusa, il carabiniere è con la gente e per la gente».
Quando vide per l’ultima volta Mario Soldati?
«Il 19 giugno 1999, poche ore dopo la morte. Anni dopo sono andato a salutarlo nel cimitero di Torino, ma non ho trovato sulla lapide l’epitaffio che s’era scritto nel 1957 a Marsiglia, dove stava girando un film con Fernandel: “Amò troppo la pace per credere di meritarla e strenuamente la fuggì. Ora è contento!”.

Un pochino coincide con ciò che ho sempre pensato della felicità».
Cioè?
«La felicità non è quella che crediamo d’aver perso. La felicità è tutto ciò che abbiamo».
(551. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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