La provocazione immaginaria. Nei fatti del 30 giugno del 1960 gli storici e i retori progressisti contemplano la vittoriosa risposta del popolo genovese alla tremenda minaccia fascista costituita dal Msi, partito che raccoglieva appena il 5% dei voti, mentre si accingeva a celebrare un congresso convocato per confermare, in via definitiva, l'adesione alla democrazia dichiarata al tempo della fondazione.
La libertà del pensiero storico e retorico non è in discussione. È lecito tuttavia domandare da quale alterata memoria i progressisti estraggono la notizia di una minaccia fascista incombente sulla democrazia italiana nel 1960. Il Msi fu fondato nel dicembre del 1946, nello studio di Arturo Michelini, valoroso combattente (in Russia aveva meritato la medaglia d'argento) con un passato di fascista moderato e militante in anodine e innocue organizzazioni sportive.
Il Msi peraltro si costituì in una scena italiana desolante, che narrava la disfatta militare, le macerie, la malinconica fine del sogno imperiale, la morte in combattimento di più vivaci avanguardisti (Niccolò Giani e Guido Pallotta) oltre lo sterminio di trentamila fascisti repubblicani e l'epurazione dei più autorevoli studiosi d'area (ad esempio Giorgio Del Vecchio, Gioacchino Volpe, Carmelo Ottaviano, Nicola Petruzzellis). Gianni Roberti, militante e dirigente missino della primissima ora, ha scritto: «Era cambiato tutto: ce ne rendemmo conto subito e non tardammo a comprendere che bisognava assumere una nostra nuova collocazione in campo politico, a meno che non volessimo rifugiarci nel privato attraverso quella evasione che Carl Schmitt, riecheggiando Tucidide, aveva definito divertimento.... Stabilito che di fascismo non era più il caso di parlare, bisognava pensare al post-fascismo. Che una rinascita o peggio una riproduzione del movimento fascista fosse tra le cose possibili lo escludemmo subito».
L'autorevole storico Giuseppe Parlato, in un saggio edito dalla non sospetta casa editrice Il Mulino, ha dimostrato, dal suo canto, che la politica del Msi fu indirizzata fin dall'inizio all'accettazione del sistema democratico e alla ricerca di un'intesa con la Chiesa cattolica e con l'America.
Il motto del Msi era «non restaurare non rinnegare». Non tentare l'impossibile ricostituzione del partito fascista, non rinnegare l'esperienza personale dei fondatori missini, che avevano militato nel partito fascista senza compiere azioni delle quali vergognarsi.
Nell'estate del 1960, ad ogni modo, Arturo Michelini intendeva celebrare un congresso progettato e convocato per confermare solennemente la scelta democratica del 1946.
I fascisti irriducibili, al seguito di Pino Rauti, si erano dimessi dal Msi nel 1956, pertanto una larga e tranquilla maggioranza condivideva la linea moderata proposta da Ernesto De Marzio e Carlo Costamagna. L'idea di un congresso provocatorio, nostalgico ed estremista era lontanissima dalla mente di Michelini, di De Marzio e dei loro collaboratori. Felicemente inserito nel gioco democratico, nel 1960, il Msi stava sostenendo (con voto parlamentare determinante) il monocolore democristiano presieduto da Fernando Tambroni. Curiosamente Vittorio Pertusio, sindaco democristiano in carica nell'insorgente e presunta rossa città di Genova, era stato eletto grazie al voto determinante di quattro consiglieri appartenenti al Msi. Non c'era motivo di tentare avventurose provocazioni fasciste, che avrebbero causato reazioni dagli effetti incalcolabili.
Vero è che Michelini, raggiunto da voci sui preparativi a sinistra di azioni finalizzate al disturbo del congresso missino, si affrettò a telefonare al responsabile genovese dell'organizzazione, Pino Rolandino, prospettandogli la convenienza di trasferire la sede del congresso in altra e più tranquilla città. Rolandino interpellò il pretto Vicari il quale gli garantì che la situazione era sotto controllo. E forte dell'autorevole assicurazione ottenne da Michelini la conferma della scelta della sede genovese.
Una rivolta al servizio della sinistra democristiana. La scena politica del 1960 è comprensibile quando si rammentano le ragioni che avevano convinto il presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, ad assegnare l'incarico di formare il governo a Ferdinando Tambroni: a. la diffusione nell'alto clero e la relativa approvazione degli argomenti esposti da padre Antonio Messineo (nella «Civiltà Cattolica») per confutare le idee progressiste e aperturiste di Jacques Maritain;
b. l'aumentato potere della destra democristiana a seguito delle elezioni politiche del 25 maggio 1958, che avevano segnato un forte incremento della Dc a spese dei partiti della destra;
c. la confermata opposizione della gerarchia cattolica all'apertura a sinistra, progettata da Amintore Fanfani e dagli altri continuatori della politica di Giuseppe Dossetti;
d. la costituzione di una forte destra cattolica organizzata da Luigi Gedda (e apprezzata dagli esponenti del partito romano) intorno alla rivista «Ordine civile», palestra di intellettuali quali Augusto del Noce e Gianni Baget Bozzo;
e. sintomo dell'evoluzione in atto «a destra» la partecipazione attiva al dialogo con i redattori di «Ordine Civile» di qualificati esponenti della giovane cultura missina, quali Giano Accame, Primo Siena, Fausto Gianfranceschi, Fausto Belfiori e Maurizio Giraldi;
f. la caduta del governo Segni (24 febbraio 1960) a causa del malumore diffuso nella maggioranza dalle voci intorno alla intenzione democristiana di aprire a sinistra.
Il governo monocolore di Tambroni, più che dall'esigenza di costituire un governo atto a gestire le olimpiadi romane, ebbe origine dalla diffusa ostilità nei confronti del progetto dossettiano-fanfaniano di apertura a sinistra.
Vero è che socialisti e socialdemocratici, fiutando il vento ostile, respinsero l'invito di Tambroni a sostenere il nuovo governo con un voto formalmente «neutro».
La fiducia a Tambroni fu votata da una maggioranza parlamentare costituita da democristiani, missini e indipendenti di destra. Quasi a rivelare in quale area aveva origine l'avversione a Tambroni, tre ministri militanti nella sinistra democristiana, Giorgio Bo, Giulio Pastore e Fiorentino Sullo, si dimisero immediatamente, dichiarando «antifascista» la loro decisione.
A sorpresa Gronchi respinse le dimissioni immediatamente presentate da Tambroni e rinviò il governo alle camere che gli confermarono la fiducia.
Un'idea degli stati d'animo prevalenti in quei giorni si ricava dalla lettura del discorso con cui Aldo Moro annunciò il voto dei deputati democristiani a favore del governo Tambroni. Pubblicato dalla casa editrice Le Cinque Lune nel 1963, insieme con altri interventi, il discorso di Moro contiene sorprendenti espressioni di apprezzamento nei confronti della politica e della cultura missina.
Ottenuta l'approvazione delle camere, il governo si mise immediatamente al lavoro attuando un programma finalizzato a riversare sugli italiani l'ingente ricchezza prodotta dal miracolo economico. Di qui l'abbassamento del prezzo della benzina e di alcuni generi di prima necessità, atti che procurarono una vasta popolarità a Tambroni. La sinistra democristiana era in un vicolo cieco. Il tentativo di far cadere Tambroni era fallito miseramente. E per giunta il governo di centrodestra stava attuando una politica economico d'indirizzo popolare. A quel punto, Pietro Secchia, rappresentante dell'ala vetero stalinista del Pci decide di muovere la piazza contro Tambroni.
L'argomento che convinse Secchia all'azione violenta non è conosciuto. Certa è invece la diffidenza di Togliatti, il quale non vedeva i vantaggi che il Pci poteva trarre da un intervento che - di fatto - costituiva un soccorso alla sinistra democristiana. A posteriori si può azzardare l'ipotesi di un suggerimento del Kgb, che nelle dimostrazioni violente vedeva l'occasione propizia alla formazione di squadre di guastatori e terroristi, agenti agli ordini di Mosca e sottratti al controllo del Pci. Ipotesi che si rivelerà credibile, quando le Brigate rosse cominciarono a fomentare disordini e violenze fini a se stesse. Certo è che l'azione magistralmente orchestrata da Secchia mise in grave difficoltà la polizia italiana, che fu costretta a dichiarare l'impotenza a garantire lo svolgimento del congresso missino. Gli attivisti di Secchia, infatti, sfruttavano abilmente la prossimità della piazza De Ferrari, luogo prescelto per l'esercizio della violenza comunista, a vicoli impercorribili dalle camionette della polizia. L'autorità di polizia fu soverchiata dai violenti e dovette contare morti e feriti fra i suoi agenti.
Tambroni intervenne immediatamente e, accertata la possibilità di far svolgere il convegno in una sede genovese decentrata, ne diede immediata comunicazione a Michelini (che si trovava nell'Albergo Columbia, assediato dai facinorosi). Qui purtroppo entrano in scena le sindromi perenni del bunker post-fascista: infantile fierezza nel luogo del senso comune, ira nel luogo della riflessione, crepuscolarismo nibelungico nel luogo della fiducia nel futuro, dispetto nel luogo della convenienza politica. Conosciuta la proposta di Tambroni, infatti, Almirante (lo testimonia Luciano Garibaldi, presente - attonito - alla patetica scesa) montò su tutte le furie e minacciò Michelini di avviare uno scisma ove fosse accettata l'umiliante (a suo parere) proposta di trasferire la sede del congresso in luogo sicuro e difendibile. Michelini vittima della passione per l'unità del partito cedette al ricatto almirantiano e in quel preciso momento il Msi entrò nel proverbiale frigorifero - oggetto di tante insensate apologie almirantiane. E causa di tanta tragedia per i giovani militanti, esposti all'ira dei comunisti, vincitori delusi e impotenti.
Conclusione. A chi è servita la rivolta del 30 giugno? I celebranti dell'insurrezione farebbero bene a porsi questa domanda. Potrebbero finalmente rendersi conto della realtà.
a. La rivolta, in prima istanza giovò a Fanfani e Moro. Non per niente Fanfani, succedendo a Tambroni, dichiarò che il suo governo era costituito per ripristinare la legalità democratica, cioè per obbedire al «messaggio» lanciato dalla piazza furente.
b. In secondo luogo la rivolta giovò ai poteri forti, che in alto loco avevano deciso l'opportunità di modernizzare l'Italia, cioè di scardinare la società italiana mediante la promozione morale degli adulteri e dei coniugi scismatici, la denatalità procurata nelle cliniche abortiste, il trionfo della pornografia, la micidiale diffusione di droghe approvate dalla finanza iniziatica, e (prossimamente) la consacrazione della famiglia pederastica.
c. In coda al successo dei poteri forti ci fu la trasformazione del Pci in partito radicale di massa, figura infine scolpita plasticamente nella candidatura di Emma Bonino sostenuta dall'alto finanziere George Soros.
d. In coda all'addomesticamento del Pci avviato dopo la rivolta genovese ci fu la rabbia dei comunisti (in prima linea i comunisti genovesi, che erano stati protagonisti delle roventi giornate del giugno 1960) cioè la luttuosa irruzione sulla scena politica del partito armato.
e. Nel bilancio passivo, infine, va insinuata la retromarcia culturale e politica del Msi, cioè la reazione tanto sbagliata quanto comprensibile a un isolamento che presto sconfinò nella più stupida e feroce persecuzione. Onde l'insorgenza a destra di un'ala estrema tragicamente e follemente aperta al terrorismo.
Detto questo non rimane che chiedere ai progressisti festanti: qual è il vero motivo della celebrazione? Festeggiate il partito radicale di massa, vivente umiliazione dell'ideologia proletaria? Festeggiate le brigate rosse? O celebrate Breznev e la Bonino, in un coro grottesco e umiliante?
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