I segreti di Campana sugli scogli di Bogliasco

I segreti di Campana sugli scogli di Bogliasco

Alessandro Massobrio

I Canti Orfici sono là, su un leggio di metallo, al centro di una tavola rotonda. Se fosse esposto, come scriveva il Pascoli, su di un’altana; se il vento ne muovesse le pagine; se su di esse trascorressero le costellazioni, quel libro potrebbe assumere un significato universale. Potrebbe rappresentare il nostro comune destino. Il destino di uomini, che stanno come sugli alberi le foglie. Ma quel libro, i Canti Orfici, è invece custodito nel chiuso di una piccola casa, aggrappata alla scogliera, sopra il mare di Bogliasco. Una casa che guarda il sole abbacinante della passeggiata e, oltre la passeggiata, la risacca. Che di notte deve respirare nelle profondità di quella piccola casa con il respiro profondo del mare.
È la casa di Giorgio Ballerini, uno di quegli incredibili personaggi di cui le lettere e le arti d’Italia dovrebbero andare fiere, ma che invece seppelliscono nell’anonimato e nell’oblio. Giorgio Ballerini appartiene a quella ristretta stirpe di artisti che una volta si definivano universali. È poeta (ha scritto cinque volumi di poesie, la maggior parte dei quali sono stati stampati da quel mecenate che fu l’editore Carpena), è fine incisore su bronzo e pietra (i ciottoli levigati dal mare di Bogliasco, su cui ha «ricamato» velieri, pesci e immagini sacre, ispirate alle formelle del Ghiberti) ed è, soprattutto, un marito affettuoso e preoccupato.
Lui, quasi novantenne, trepida per le condizioni della moglie Carmelina, più giovane del marito di qualche anno, ma da tempo malata della malattia di questo primo scorcio di millennio: la depressione. La depressione è un riflesso dell’età. È il sentimento del tempo che passa in un corpo che non vuole conoscere il trascorre del tempo. In un corpo che si protende verso la vita come verso il mare si protendono le agavi di Bogliasco.
E quel libro, i Canti Orfici, è un po’ il simbolo di questa volontà di restare, di affondare le proprie radici nel presente, anche se quel presente - per gli altri - appartiene al più remoto passato. «Vede - mi dice Ballerini - vede la data? È del 1914. Questa è la prima edizione, quella che Campana stampò dopo che Soffici gli smarrì il manoscritto originale. Tre ce ne sono. Di queste tre una appartiene al sottoscritto. È una copia ancora intonsa e venne ritrovata dopo le vicissitudini dell’ultima guerra nella casa di Campana, a Marradi. E vede quanto è lacera e sporca? Colpa dei bombardamenti. Marradi si trovava infatti proprio sulla Linea Gotica e dunque anche la biblioteca del poeta fu coinvolta dalla furia dei proiettili».
Ma lei come l’ha avuta?
«Me l’ha donata Elda Campana, la nipote di Dino, per premiare la mia modesta opera di poeta ed incisore. Pensi che Gianpiero Muggini, che, come me, con i Campana è legato da vincoli di parentela, ha confessato, durante un’intervista, che la copia in suo possesso era più rara di una piovra degli abissi. Gli ho telefonato subito e gli ho detto: “Caro Gianpiero, se vuoi vedere una piovra degli abissi in tutto uguale alla tua, vieni qui, sul lungomare di Bogliasco e la tua curiosità sarà soddisfatta”».
Scusi la mia insistenza, ma l’altra copia che fine ha fatto?
«Appartiene alla famiglia di Lello Campana, cugino di Dino, mio grande amico e forse poeta ancora più grande del suo più celebre parente. Ma guardi attentamente la copertina del libro. Come vede il primo editore dei Canti Orfici fu un povero tipografo di Marradi. Ravagli si chiamava. Una bravissima persona ma che non aveva nessuna intenzione di danneggiare i propri interessi, neppure in nome di un capolavoro della poesia. In altre parole, conoscendo il Campana, non si fidava di lui, temeva che i quattrini non arrivassero e dunque pretendeva un garante».
E questo garante fu alla fine trovato?
«Altroché. Pensi che si trattò di un mio prozio, il nobile Camillo dei conti Fabroni, un signore alto e distinto, che pareva il ritratto sputato di Umberto I, con quei suoi baffoni a manubrio. Un patriota come ce n’erano una volta. Pensi che aveva dipinto di bianco rosso e verde i tronchi degli alberi del suo giardino e pure il manico del martello. Ebbene, il nobile Camillo prestò al suo concittadino Campana i soldi per stampare il libro e così i Canti Orfici finalmente videro la luce... Ma non creda mica che sia finita qui».
In che senso, scusi?
Giorgio Ballerini è inarrestabile. Si muove, si agita, si aggira intorno alla tavola rotonda come se fosse ancora un ventenne e detenesse il primato ligure di salto in alto nella categoria juniores. Ha tante cose da dire e tutte sono prigioniere di libri e ritagli di giornale, che lui cattura ed afferra, nonostante si dibattano come pesci di scoglio.
«Intendo dire che non finiscono qui i rapporti tra la mia famiglia ed i Campana. Lei deve sapere infatti che, a dispetto di tutte le biografie che sostengono che il poeta nacque a Marradi nella casa paterna - la casa, voglio dire, dove questa edizione dei Canti Orfici è stata ritrovata - ebbene, nonostante quello che dicono i biografi, io le posso assicurare che Dino Campana venne invece alla luce nella dimora dei miei nonni materni. E sa per quale motivo?».
Non ne ho la minima idea.
«Ma perché la casa paterna, quando egli nacque, non c’era più. Visto che era stata in parte ridotta in macerie dal terremoto del 1883, che distrusse anche la chiesa ed altri monumenti pubblici del paese. Sicché i Campana trovarono accoglienza nel periodo della ricostruzione proprio dai miei nonni e fu in questo periodo che il piccolo Dino venne a sperimentare le amarezze di questo mondo».
Intende riferirsi alla follia del poeta?
«Una follia senza dubbio ereditaria. Una follia che lo ha condotto in manicomio quando io ero ancora ragazzo. È stato questo il motivo per cui non ho avuto la fortuna di conoscerlo. Ho conosciuto comunque la sua amante, la Sibilla Aleramo, che era diventata, negli anni seguenti, la compagna di un 33 della loggia di Genova, il celebre, almeno a quei tempi, Orazio Coclite. Con lei, quella sera, abbiamo a lungo parlato di Dino, della sua poesia così tormentata».
Lei mi ha accennato ad una sorta di tara ereditaria?
«Sì, ci sono studiosi, come il Maranzana, che sostengono che all’origine della pazzia del poeta ci sarebbe stata un’infezione luetica trasmessasi di ramo in ramo, nell’albero genealogico di famiglia. Altri accennano ad un amore incestuoso con sua zia Fanny. Per quanto mi riguarda, non amo soffermarmi su queste cose. Diciamo che Campana era folle e non pretendiamo di indagare su segreti di famiglia che conviene mantenere nel più assoluto riserbo».
Campana comunque non perse la ragione in seguito allo smarrimento del suo manoscritto?
«Assolutamente no. Certo questo episodio avrà contribuito ad accrescere il suo malessere, ma già dall’età di otto-dieci anni aveva dato segni evidenti di squilibrio mentale. Rompeva i tavolini dei caffè, malmenava gli altri bambini, si ubriacava. Insomma, dava chiari segni di quel tormento che gli rombava dentro come una bufera. Lei li conosce i versi che in memoria di Dino ha scritto suo cugino Lello. No? Allora, ascolti: Dovrei ricominciare/ e camminare/ per massi e massi e massi/ ove Lui solo,/ dentro grande nulla/ ha capito l’immenso/ ove si culla/ e nel “mattino ardente”/ è librato nel sole».


La voce di Giorgio Ballerini sale e scende nel silenzio della piccola casa sul mare. Fuori il caldo e la luce si attenuano in un crepuscolo d’oro. L’ultimo raggio di sole sfiora le pagine del libro che giace - da sempre? - sul leggio.

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