I soliti sospetti nel Paese dei gialli irrisolti

Ci risiamo, Vent’anni dopo, le grandi incompiute italiane ripartono. Non ci riferiamo al Ponte sullo Stretto o alla Salerno-Reggio Calabria, i cui lucidi plastici ci facevano sognare ancora ai tempi del Corriere dei piccoli. No, questa volta a rilanciare sono i Pm che scavano, come archeologi, su alcuni grandi delitti mai risolti. Oggi sotto i riflettori sono l’omicidio di via Poma e il sequestro di Emanuela Orlandi. Il processo a Raniero Busco, il fidanzato di Simonetta Cesaroni, è iniziato nei giorni scorsi. Per la scomparsa della Orlandi, il cui sorriso, con la bandana a incorniciare i lunghi capelli, appartiene alla memoria di almeno due generazioni di italiani, sono iscritte nel registro degli indagati tre persone: Sergio Virtù, l’autista del boss della Magliana Enrico De Pedis. E poi due «soldati» semplici del crimine romano: Angelo Cassani, detto Ciletto, e Gianfranco Cerboni, noto come Giggetto. Il terzetto avrebbe partecipato al sequestro della ragazza. Tutti e tre, interrogati, negano.
Il tempo si è dilatato, ma lo spazio degli inquirenti è sempre quello: un recinto stretto, strettissimo, claustrofobico, lo stesso dei primi giorni. Busco fu sospettato e torchiato, dopo la scoperta del corpo di Simonetta, la sera del 7 agosto ’90. Non si trovò nulla, nulla di decisivo, e la sua posizione fu archiviata. Come tutte le altre. Ma fu messa da parte all’italiana, fra dubbi, suggestioni e mezzi indizi. Nel diario - altro elemento immancabile di ogni inchiesta che si rispetti - Simonetta annotava che il suo rapporto con Raniero andava avanti fra liti e rappacificazioni. E questo è più che sufficiente per trasformare il fidanzato in un indagato virtuale. A vita. E poi aveva fornito un alibi pasticciato, ammaccato, perché aveva chiamato in causa un amico che invece lo smentì. O, forse, non confermò alcuni dettagli. Del resto, i dettagli hanno crocifisso in questa inchiesta altre persone. Pierino Vanacore, il portiere di via Poma, fu arrestato il 10 agosto, tre giorni dopo il massacro, scosso come un albero da frutta, prosciolto e prontamente trasferito, pure lui, nella galleria degli indagati virtuali. Una giostra da cui non si può scendere. Mai. Martedì alla vigilia dell’ennesimo interrogatorio, proprio al processo Busco, si è ammazzato lasciando biglietti scritti col rancore e la disperazione: «Venti anni perseguitati senza nessuna colpa».
Aver calpestato la scena del delitto non significa aver commesso il delitto; ma in Italia chi si è trovato nei paraggi di un cadavere si trova addosso quel peccato originale e se lo porta dietro per tutta la vita. Tanto, qualche elemento poco chiaro c’è sempre, c’è sempre un giallo nel giallo, una telefonata strana e comportamenti poco limpidi. E poi la mancata cattura dell’assassino, quello vero, porta fatalmente a spargere i sospetti a turno su tutte le persone rimaste nel cerchio di quelle coinvolte. Vanacore è rimasto imputato virtuale per vent’anni, Busco è stato catapultato sul banco vero degli imputati per una traccia di saliva lasciata sul reggiseno di lei ed estratta dai camici bianchi grazie alle nuove tecnologie in una sorta di Jurassic Park della cronaca nera. Ma si può ragionevolmente pensare che Busco possa essere condannato, frugando fra le macerie delle vecchie indagini? Non importa. Le inchieste monche, e l’Italia è piena di protesi giudiziarie, hanno a loro volta un alibi perfetto che cancella errori, macchie e sciatterie: il nostro è il Paese dei segreti, delle verità che qualche potente burattinaio nasconde in un cassetto. Dai e dai, prima o poi si aprirà.
Anche per la tragedia di Emanuela Orlandi, la giustizia, sfibrata, cerca la soluzione tornando al punto di partenza. In un girotondo che diventa un moto perpetuo. C’è una differenza: il delitto Cesaroni finisce dove è cominciato, in via Poma 2, al quartiere Prati. Con la Magliana, invece, i Pm entrano, portati per mano dall’immancabile pentito, in questo caso l’amante del boss Enrico De Pedis, in quel retrobottega della storia italiana, dove suggestioni, nomi, spezzoni di indagini si sovrappongono e confondono. In una specie di dominio dietrologico saltano fuori il crac dell’Ambrosiano, la banda della Magliana, Licio Gelli e la P2, Marcinkus e Pecorelli.

Manca l’oro di Dongo, ma s’intravede, per par condicio, il tesoro di Calvi. I Pm saccheggiano quel magazzino, già esplorato all’indomani del sequestro, il 22 giugno ’83. La verità è sempre a portata di mano, ma non arriva mai. La saga va avanti.

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