I soloni della libertà che epurano gli indipendenti

I santi laici hanno spesso la barba bianca. Sono quelli che non si sporcano mai le mani, sante vergini del giornalismo, sacerdoti del mestiere, con l’attico-ufficio che guarda in faccia le finestre di Dio. Il più santo di tutti - sacro, saggio e immacolato - è da almeno mezzo secolo Eugenio Scalfari, il fondatore. L’uomo che ha trafugato la testata direttamente dall’iperuranio di Platone e da una vita sogna il governo aristocratico dei filosofi. Scalfari non è più il direttore, ma dal pulpito del suo quotidiano non ha mai rinunciato a lunghe prediche domenicali. Quelle feriali sono più brevi. Come ieri, quando ha pubblicato un’omelia minore, ma vibrante, sulla libertà di stampa, con una filippica contro i collaborazionisti, i pavidi, i don Abbondio e consimili, quelli che restano nella zona grigia e si piegano ai voleri del Conte-zio manzoniano. Insomma, contro Ferruccio De Bortoli.
Il peccato di De Bortoli è far finta che non esistano le «grida berlusconiane», gli editti con cui il premier ha defenestrato Mieli dal Corsera e liquidato Anselmi dalla Stampa. Scalfari non spiega, nella breve omelia, come faccia il premier a comandare in via Solferino e a «casa Agnelli». Non è importante. I giornalisti sono sentinelle e devono stare all’erta. Lui, chiaramente, ci sta. Solo che le barbe bianche ogni tanto perdono pezzi di memoria. Oggi difendono Anselmi martire, ma non ricordano quando Anselmi non martire decollò dalla poltrona di direttore dell’Espresso senza neppure dire amen. Era il 20 febbraio 2002, data strana, che si legge anche al contrario, come uno specchio. Quel giorno l’ingegner De Benedetti e il principe Caracciolo misero alla porta Anselmi. Bastò un invito a cena, a casa del nobile editore, di fronte all’isola Tiberina. Tutto accadde prima di sedersi a tavola: «Caro Anselmi, da domani non sarai più il direttore». Non volle neppure dirgli chi avrebbe preso il suo posto. Il giorno dopo arrivò Daniela Hamaui. Il padrone può licenziare i direttori. Fa parte del gioco e dello stipendio. Quello che stona, a casa dei paladini della libertà di stampa, furono la malagrazia e le modalità. Anselmi di quella storia non vuole più parlare. La tiene chiusa nel cassetto dei ricordi che ti fanno male, quelli sgradevoli, quelli che qualche volta ti fanno dire: ma andate al diavolo voi, il giornalismo e le vostre belle parole.
Perché fu licenziato? Anselmi ancora non lo sa. Lo lasciarono con un generico: i newsmagazine sono morti. Tutto qui. Anselmi passò, in quasi quattro anni, da 13 miliardi di rosso a 12 miliardi di attivo. Hamaui guidava il femminile D di Repubblica, tanta pubblicità e poche copie. Anselmi quindi non fu cacciato per motivi economici. C’era altro. Lì, all’Espresso, si fecero diverse ipotesi. Qualcuno disse che Daniela era molto amica di Emmanuelle de Villepin, moglie di Rodolfo De Benedetti e nuora dell’Ingegnere. La famiglia aveva deciso di valorizzarla. Altri sostengono: Non piacevano quelle copertine irriverenti, come l’inchiesta sulla grande famiglia di mamma Rai, che parlava di figli, fratelli, coniugi e amici vari. Nella lista capitò anche Paola Ferrari, volto del Tg2 e moglie di Marco De Benedetti. Anselmi, si disse, era poco aggressivo. Sfidava il Cavaliere con il fioretto, ma senza la sana ideologia dell’antiberlusconismo. L’Espresso non formava più con Repubblica quella leggendaria coppia d’assalto. Non copriva le spalle alla flotta scalfariana. Serviva un newsmagazine dell’antipolitica, morettiano e no globale. Ecco la Hamaui, con quell’antiberlusconismo viscerale che solo le signore snob di Milano sanno ostentare. L’Hamaui avrebbe garantito alla coppia di editori purissimi una rotta sicura da cima a fondo. I padroni democratici non mettono mai piede in redazione, tranne che per giusta causa. E quella, si sa, si trova sempre. Google è un archivio utile, scartabellando alla voce «Hamaui and Anselmi» spunta un vecchio pezzo di Giampaolo Pansa sul Riformista. Racconta. Caracciolo mi rassicurò. Non cambia nulla, la linea resta quella di sempre. «Mi porse un po’ di fogli e disse: leggi qui e te ne convincerai. Lessi, strabuzzando gli occhi. Era il discorso che il nuovo direttore avrebbe fatto alla redazione nel momento di insediarsi. Stupefatto, chiesi al principe: «Ma chi l’ha scritta questa roba?». Lui fece un gesto vago, davvero principesco, che voleva dire: l’autore non ha importanza. Non era il primo cambio di direzione che vedevo. Però non mi era mai capitato di leggere un discorso della corona preparato in anticipo da un fantasma».
Questa è solo una storia. E serve a ricordare alle sentinelle che non si può gridare all’erta sempre dalla stessa parte.

Gli editori purissimi, in questa Italia partigiana e guerraparolaia, sono solo un riflesso. Come nel mito della caverna, sempre quella di Platone. Le barbe bianche non dicono bugie, ma qualche volta mentono a se stesse.

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