I terroristi ora alzano il tiro: disinnescata una bomba all’Eni

MilanoL’innesco era semplice ed efficace. Una bottiglia piena di liquido infiammabile, collegata a tre grossi petardi in funzione di detonatori, ad un innesco di «diavolina» e a un timer puntato sulle 13,50. Se alle due meno dieci di ieri pomeriggio l’ordigno fosse scoppiato, chiunque si fosse trovato a passare su quest’angolo di Milano - un impiegata, una mamma con la carrozzina, una vecchietta, insomma una qualunque persona normale che nessuna colpa ha di quanto sta accadendo nel mondo - sarebbe stata investita in pieno da una fiammata devastante. Invece, quando erano quasi le 13,30 l’ordigno è stato visto da una dipendente del negozio dell’Eni che apre le sue vetrine tra corso Sempione e via Melzi d’Eril. Lo hanno disinnescato gli artificieri della questura pochi minuti prima che esplodesse.
Per capire chi e perché abbia deciso ieri mattina di mettere a rischio la pelle di passanti o impiegati innocenti bisogna partire dall’analisi dell’obiettivo. Su questo ci sono pochi dubbi: anche se la presenza della redazione di un quotidiano, Il Fatto, a qualche decina di metri di distanza, sulle prime aveva lasciato aperte ipotesi alternative, in realtà alla Digos è stato presto ben chiaro che nel mirino c’era l’«Energy store», il negozio dell’Eni. La compagnia petrolifera di Stato è da tempo, per il mondo della sinistra radicale italiana, un nemico da battere. E un rapporto riservato, inviato recentemente dall’ufficio sicurezza di Eni al ministero dell’Interno, indica proprio negli «Energy store» aziendali degli obiettivi sensibili, i bersagli ideali per i gesti di violenti e terroristi. Gli store del cane a sei zampe sono tanti, soprattutto nell’Italia settentrionale. Non sono difesi, perché sono collocati sulla pubblica via, fuori dalle strutture aziendali. E infatti nei mesi scorsi una serie di store sono stati colpiti. Si era trattato, finora, più di atti vandalici che di attentati veri e propri: vetrine sfondate, saracinesche divelte, muri imbrattati. Mai nessuna firma, ma slogan che riportavano direttamente alla galassia anarco-insurrezionalista. E da quest’area arriva in serata la rivendicazione di un gruppo «antagonista», con cui si esprime anche solidarietà ai tre militanti arrestati in Svizzera per un attacco a una sede dell’Ibm.
Gli anarchici non sono gli unici, nella sinistra ultrà, a indicare in Eni la «punta di diamante dell’italo-imperialismo». Per capire quali siano gli argomenti contro il colosso guidato da Paolo Scaroni basta andare a leggere cosa dice di Eni e del suo ruolo in Nigeria «Il pane e le rose», uno dei siti di riferimento della sinistra neo-marxiana: «Parlano di lotta alla fame e al sottosviluppo, ma intanto intascano profitti miliardari. Solo nel 2005, l’italiana Eni, che investe, insieme alla Shell, all’Elf e alla Chevron, da oltre quaranta anni nel Delta del Niger, ha dichiarato un utile netto di 8.788 milioni di Euro, mentre oltre 20 milioni di abitanti del Delta vivono con meno di un dollaro al giorno. Dichiarano di perseguire lo sviluppo sostenibile, ma per estrarre 2,5 milioni di barili di petrolio al giorno distruggono e saccheggiano interi territori, scacciandone gli abitanti». E via di questo passo.
Si tratta di accuse che, fondate o meno, rientrano nel diritto di critica.

Ma da tempo, secondo l’allarme lanciato dal rapporto della security di Eni, c’era in giro anche chi si preparava di passare all’«azione diretta» contro i simboli del gruppo. Prima sono arrivati gli atti vandalici. Ieri qualcuno ha deciso che si poteva iniziare a fare sul serio.

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