Roma - «Non intendo rispondere nell’immediato. Preferisco farlo con calma, più distesamente, con un intervento scritto». Con queste parole il vescovo Elio Sgreccia, presidente della Pontificia accademia per la vita, il più autorevole esperto vaticano in materia di bioetica, annuncia di voler intervenire sulla riflessione del cardinale Martini pubblicata ieri dal Sole24 Ore.
Due sono i punti dell’intervento dell’arcivescovo emerito di Milano destinati a suscitare il dibattito: il primo la definizione di eutanasia, considerata soltanto come il dare «positivamente» la morte (e dunque come eutanasia attiva), mentre esiste, nella dottrina classica, anche l’eutanasia passiva. La legge francese che il cardinale valorizza – spiegano in Vaticano – non legalizza la prima, ma autorizza invece la seconda, ed è per questo che dal mondo cattolico di quel paese sono state manifestate perplessità. Il secondo punto in discussione riguarda la definizione di accanimento terapeutico e la proporzionalità o meno della cura. Martini afferma che nel dichiarare se un intervento medico sia o meno appropriato «non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica» e invita a tenere maggiormente conto di come il paziente vive la cura. Nei palazzi vaticani si fa però anche presente che devono esistere dei criteri «oggettivi» per la definizione di proporzionalità o meno della cura. «Dal punto di vista etico, nel caso di Welby – confida un porporato che si occupa spesso di questi temi – la proporzionalità della cura c’era e il suo non si poteva definire un caso di accanimento terapeutico». Certo, ricorda un altro prelato, «esiste un diritto sancito dalla Costituzione a rifiutare determinate cure, anche se manca poi una legge applicativa e se le cure sono proporzionate, eticamente non sarebbe lecito rifiutarle».
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