I tortellini in brodo e la duchessa di Windsor

Caro dottor Granzotto, da associato virtuale al Circolo del Tavernello desidero segnalarle una scomparsa. Mi riferisco alla minestra in brodo, piatto tipico della cucina italiana e uno dei simboli della comunità familiare, un tempo graditissima d’inverno ma apprezzata anche in estate, servita tiepida. Salvo rare eccezioni la minestra in brodo non compare più sui menu dei ristoranti e delle trattorie ed è in pratica sparita nelle colazioni e nelle cene imbandite per gli ospiti nelle case private. Ciò le riferisco in base a mie ripetute osservazioni, le posso parlare all’incirca di una ventina di ristoranti e una dozzina di privati. Non trova che i movimenti gastronomici che propugnano l’identità alimentare e privilegiano i cibi della tradizione dovrebbero intervenire invece di occuparsi solo del lardo di Colonnata?



Vero, caro Sacconi, verissimo: la minestra in brodo sembra non faccia più parte delle nostre abitudini alimentari, imbarbaritesi per eccesso di omologazione da un lato, di eccentricità dall’altro. È sparita dai deschi anche la classica «minestrina» che pure una volta immancabilmente vi compariva. Colpa del poco tempo che si dedica alla cucina, ora dominata dal surgelato, dal microonde e dai due salti in padella? Chi può dirlo. Una delle responsabili dell’ostracismo è sicuramente la duchessa di Windsor, nata Wally Simpson. Racconta Alvar Gonzales Palacios nel suo bellissimo «Un anno in meno» che fu proprio la «regina delle arrampicatrici sociali» a bandire le minestre sostenendo che «non si costruisce un pranzo su una palude». E siccome malauguratamente la Simpson faceva «tendenza», i divini mondani seguirono il suo esempio a sua volta seguito dagli imitatori degli imitatori.
Credo però che tutto non sia perduto, caro Sacconi, e che proprio ora, in tempo di festività natalizie e quindi di agapi familiari e di piatti tipici da consumare per tradizione in quei giorni, sui deschi delle persone ammodo la zuppiera seguiterà a troneggiare. Che Natale può mai essere un Natale mettiamo in Emilia Romagna, senza i tortellini o cappelletti o anolini o agnolotti o cappellacci che dir si voglia, rigorosamente in brodo? E rigorosamente da confezionare in cucina dopo che la più robusta delle donne di casa abbia tirato la sfoglia fino a renderla sottile come carta velina? Un rito, quello dei tortellini, con il suo disciplinare; le sue leggi, mi vien da dire. Il ripieno, i cui ingredienti e dosi vengono tramandati da madre in figlia, impastato con le premure di un alchimista alle prese con la pietra filosofale. E la confezione, per la quale sono reclutate certe zie, il più delle volte nubili, sempre di minuta costituzione, le uniche autorizzate ad annodare con arte il tortellino il quale, dovendo essere piccolo, va manipolato da dita esili, da arpista. Una distesa a perdita d’occhio di tortellini e tutti uguali, tutti del medesimo calibro.

Che finiranno a galleggiare nel fumante brodo di cappone, con gli «occhi», perché è Natale e a Natale non ci si mette a dieta e non si sta a badare al colesterolo. E tutto questo bendiddio quella strega della Windsor me lo chiamava palude!
Paolo Granzotto

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