Se i radicali non vantassero continuamente la loro perfezione, se ne trascurerebbero i difettucci lasciandoli in pace. Se ne parlerebbe col contagocce - sono quattro gatti - e rispetto per le battaglie del passato. A furia però di dirsi diversi, senza esserlo affatto, i commenti se li tirano.
Prendiamo Emma Bonino che corre per la presidenza della Regione Lazio. Lo fa con una lista a suo nome (Bonino-Pannella) ma con l’appoggio del Pd, Verdi e altri. È, cioè, a pieno titolo una rappresentante dello schieramento di sinistra. D’altronde è legata al Pd anche come parlamentare: è eletta con i voti del partito e siede a Palazzo Madama tra i banchi del gruppo. Il marchio è indelebile e impresso a fuoco.
Ed Emma, invece, che ti combina? Secondo uno stile che più partitocratico e inciucione non si può, due giorni fa si è presentata per le amministrative anche in Lombardia con la solita lista Bonino. Ma stavolta contro il Pd. Lei punta a diventare consigliere regionale, il giovane Marco Cappato presidente della Regione. In sostanza, cercano di fare le scarpe tanto a Roberto Formigoni (Pdl) quanto a Filippo Penati del Pd. Ossia, Emma - la vera protagonista - si pone come terzo incomodo e mette in bastoni tra le ruote al suo stesso schieramento in piena contraddizione con le alleanze romane e gli impegni in Senato.
Per riassumere il pasticcio: i radicali nel Lazio sono alleati del Pd, o il Pd dei radicali, che è lo stesso; in Lombardia, si combattono. Situazione incresciosa e foriera di sconfitta di cui è esclusivamente responsabile la dispettosa iniziativa di Bonino. È stata lei, infatti, a intrufolarsi nella lizza dopo che il Pd aveva scelto Penati come proprio alfiere. A cosa punti non è chiaro. Vuole visibilità, mostrarsi autonoma dal Pd, alzare il prezzo per una trattativa poltronesca? Chissà. Ma non è affare nostro. Quel che conta è che si ripiomba nella solita bizantineria all’italiana che a parole Emma depreca e che nei fatti alimenta. È politicamente e moralmente identica a Pierferdy Casini. Stesse giravolte, politica dei due forni, solito ambaradam da vecchi democristiani. Un contributo a perpetuare il gioco delle tre carte che il sistema bipolare - tanto auspicato da Pannella in anni lontani - avrebbe dovuto abolire. Altro che diversità radicale.
Ma c’è di più. Emma si offre a fare il consigliere lombardo sapendo perfettamente che non potrà assumere l’incarico. La candidatura a governare il Lazio lo esclude. Delle due l’una: o a Roma prevale sull’avversaria, Renata Polverini, e diventa presidente della Regione; o perde e sarà automaticamente capogruppo dell’opposizione al consiglio regionale del Lazio. A Milano, in ogni caso, non ci sarà nemmeno dipinta. La richiesta del voto ai lombardi è una trappola: lei li turlupina e loro lo sprecano. Si dirà - e i radicali già lo dicono - che anche il Cav si è presentato alle elezioni europee in più posti pur non potendo andare a Strasburgo. Le cose però sono diverse. Il Berlusca, col suo nome, voleva coagulare consensi la cui somma, in una consultazione nazionale, porta alla vittoria. In una elezione amministrativa, al contrario, i voti necessari per governarla sono solo quelli raccolti nella Regione. Gli altri sono vento. Perciò a Milano, il massimo che Emma può ottenere, se va bene, è un’affermazione personale. Una pura vanità per calmare il proprio ego.
La vanità di Bonino. Da anni ci si crogiola. Emma qua, Emma là, liste personalizzate, campagne nominative. Ricorderete lo slogan Emma for President che avrebbe dovuto portarla sul Colle al posto di Carlo Azeglio Ciampi nel 1999. Da quando il suo nome è un logo, la sua capacità di autocritica è sparita. Eppure motivi di contrizione li ha anche lei.
Si ricorda raramente di quando fu commissario europeo (1995-1999). Una vicenda che fa pensare visto che si candida ad amministrare una regione. Il suo «ministero» era quello chiave degli Aiuti umanitari d’emergenza (Echo). La Commissione di cui faceva parte, presieduta da Santer, è stata la sola nella storia dell’Ue che abbia dovuto dimettersi, travolta da brogli, corruzione e spese pazze. Un comitato di periti nominato per controllare le voci imbarazzanti presentò, al termine dell’indagine, una relazione impietosa.
A scatenare la polemica, uno scaldaletto rosa, la punta dell’iceberg. Il commissario francese, madame Edith Cresson, aveva nominato il suo favorito, un dentista di provincia, a non ricordo quale importantissimo incarico. Il tizio non si fece mancare nulla e saltarono fuori ammanchi. L’intera Commissione finì in un vortice. Col lavoro dei periti, si aprì il baratro. Furono scoperti abusi non solo in casa Cresson ma anche negli altri Dipartimenti. Il fenomeno più rilevante era quello dei cosiddetti «sottomarini», cioè imbucati nei più diversi settori: consulenti esterni e amici degli amici che si arricchivano e bisbocciavano in violazione di ogni procedura legale.
Scoppiato il putiferio, ci si accorse che anche Emma, che noi conosciamo come implacabile fustigatrice del pressappochismo nazionale, aveva taciuto su ciò che accadeva sotto i suoi occhi. Stesso silenzio da parte dell’altro commissario italiano, il professor Mario Monti. Anzi, sentita dagli inquirenti, Bonino non seppe spiegare le irregolarità emerse nel suo Dipartimento degli Aiuti umanitari. I «sottomarini», stando alla relazione, erano addirittura «particolarmente presenti» nell’Echo a lei affidato. Il che - osserva Ida Magli nel suo studio Contro l’Europa: tutto quello che non vi hanno detto su Mastricht - è «tanto più ripugnante in quanto andava a scapito dei beneficiari degli aiuti (ex Jugoslavia, Bosnia, Ruanda, ecc.)». Sull’inchiesta, tuttavia, fu steso un velo per non offuscare l’immagine dell’Ue. In prima linea l’Italia, sia per filo europeismo farlocco che per tutelare i nostri due augusti rappresentanti.
Emma, per nulla frustrata dalla faccenda, fece di più. Attenti alle date. Il 16 marzo 1999, la Commissione Santer, ridotta un pedalino, si dimise.
Quando si dice il SuperEgo.
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