I veri progressisti tornano alla tradizione

Ernst Nolte ripercorre la parabola della Rivoluzione conservatrice attraverso il ritratto dei suoi esponenti di spicco, da Spengler a Schmitt

I veri progressisti tornano alla tradizione

La definizione di «Rivoluzione conservatrice» all’apparenza può risultare un ossimoro, una contraddizione in termini. Il termine rivoluzione indica, infatti, il massimo dell’accelerazione in un processo di cambiamento storico, sociale e politico; mentre quello di conservazione esprime una volontà di fedeltà alla tradizione. La storia ha smentito questa visione semplicistica dimostrando la modernità dei conservatori e la loro capacità di essere in alcune fasi autentici rivoluzionari capaci di innescare un forte cambiamento ispirato dai valori tradizionali.

Lo storico tedesco Ernst Nolte, fra i maggiori studiosi contemporanei, da tempo ha intrapreso un percorso, comune a molti pensatori, che da storico dei fatti lo ha portato a indagare la storia delle idee. In questa prospettiva appare chiara la finalità dell’ultimo libro di Nolte pubblicato in Italia La Rivoluzione Conservatrice nella Germania della Repubblica di Weimar (Edizioni Rubbettino, pagg.76, euro 10; a cura di Luigi Iannone), che partendo dalla «corrente di pensiero e di azione politica che si delineò in Germania», alla vigilia della Prima guerra mondiale e più compiutamente dopo ha finito per forgiare una vera e propria categoria storica ancora attuale. Non è un caso che Nolte richiami l’anatomia della Rivoluzione conservatrice messa a punto da un altro studioso, Stefan Breuer, che ascrive a questo fenomeno alcune rivoluzioni terzomondiste dove alla modernità occidentale è stato contrapposto un richiamo alla tradizione.

Nolte individua immediatamente il nocciolo della Rivoluzione conservatrice nel «rifiuto del concetto di tempo lineare e l’accettazione della natura ciclica» della storia, in altre parole il progresso etico e morale di una comunità non è nell’andare avanti verso un cambiamento a tutti i costi ma spesso il progresso di un popolo è nel ritorno costante alla propria tradizione.
La Germania non fu l’unico sedimento di questo movimento, in Italia

Vilfredo Pareto e Enrico Corradini, insieme a Gabriele D'Annunzio ma anche il gruppo della rivista La Voce (Papini e Prezzolini) e i sindacalisti rivoluzionari possono essere ascritti alla Rivoluzione conservatrice. In Francia già all’indomani della rivoluzione giacobina del 1789 comincia la rielaborazione dinamica dei valori della tradizione, attraverso grandi scrittori come René de Chateaubriand, Joseph de Maistre e Louis de Bonald, che porterà al nuovo conservatorismo dell’«Action francaise» di Charles Maurras, dove il regionalismo viene contrapposto al centralismo giacobinismo e alle simpatie filotedesche dei liberali.

Per Nolte è riduttivo inquadrare la Rivoluzione conservatrice come una mera reazione al marxismo, piuttosto è «un movimento composto da un nutrito gruppo di intellettuali con premesse molto diverse, che videro nel marxismo e nel comunismo la vera sfida dell’epoca, una sfida di natura non solo politica» e organizzano una risposta innanzitutto filosofica che «fosse all’altezza di quella marxista» muovendosi dalla stessa premessa del falso idealismo dei ceti dominanti.

Il saggio di Nolte traccia i profili delle figure rilevanti della Rivoluzione conservatrice nella Germania di Weimar: da Mann a Spengler, da Kagles a Schmitt, fino a Moeller van den Bruck e Jünger. Il grande affresco familiare dei Buddenbrook, l’opera più famosa di Mann, nel proporre la saga decadente di una grande famiglia del Nord della Germania rende chiara la contrapposizione fra Kultur e Zivilisation, perché non sempre il progresso, la civilizzazione, corrispondono a un reale avanzamento culturale.

La storia non ha un cammino progressivo, che ha un inizio e una fine, dove il dopo risulta essere meglio del prima, essa è piuttosto una «coesistenza di culture diverse» autonome nella loro sostanza, non esiste un Medioevo o un’Antichità, ma ciascuna cultura è nella sua Antichità o nel suo Medioevo in anni diversi. È la tesi che Osvald Spengler propone ne Il tramonto dell’Occidente, successo editoriale del 1918 di un autore fino ad allora sconosciuto, che attraverso una critica serrata a una civilizzazione che è «l’opposto della vita» propone un’idea di Europa culla della cultura occidentale e faustiana. L’opera spengleriana destinata a diventare un classico del conservatorismo anticipa efficacemente l’opposizione al cosmopolitismo cui contrappone la tradizione etica.

Questo contrasto intellettuale tra «sangue» e «intelletto», lo scontro tra volontà di lotta e realtà quotidiana, che altri hanno mantenuto su un terreno di nazioni, trova in Ernst Jünger una spiegazione più filosofica attraverso la nozione di «mobilitazione totale». È l’autore più consapevole che la sfida al marxismo va portata sul suo stesso terreno, quello del lavoro e della condizione del proletariato, ecco perché l’operaio propone una dimensione organicistica e etica della società. Il lavoro è la proiezione della propria personalità non solo un fatto salariale ma una partecipazione alla costruzione dell’equilibrio sociale.

Nella galleria di Nolte il personaggio di gran lunga più significativo della Rivoluzione conservatrice è Carl Schmitt, il giurista che organizza la struttura del diritto nella concezione tradizionalista. Discendente della tradizione cattolica tedesca pone al centro della sua riflessione la crisi della civiltà occidentale perché «cerca di dimostrare che il parlamentarismo liberale ha perso terreno dal punto di vista della storia spirituale e continua a restare in vita solo come vuoto apparato».

La democrazia non è solo quella che esaspera il parlamentarismo perché spesso il formalismo delle parole rende solo apparenti quelli che sono l’essenza democratica «libertà di parola, di stampa, di associazione e di discussione».

Se Osvald Spengler e Ernst Jünger si tennero ben lontani dal nazismo, esprimendo anche coraggiosi giudizi critici, Carl Schmitt si macchiò di imbarazzanti collusioni con il regime hitleriano, fino ad essere ritenuto il Kronjurist del Terzo Reich. Nel dopoguerra i pensatori della Rivoluzione conservatrice hanno sofferto di un’impropria assimilazione al nazionalsocialismo dal quale non solo si tennero aristocraticamente lontani ma lo avversarono nei postulati teorici. Al centro della loro riflessione c’è l’antimarxismo e l’antibolscevismo ma soprattutto la denuncia di uno sradicamento e la riproposizione di uno spazio spirituale nella storia. Moeller van den Bruck lanciò l’appello a fare da «sentinella sulla soglia dei valori» con un attacco all’Illuminismo, consapevole che i veri conservatori non sono coloro che sono reazionari nella quotidianità.

Nolte ne offre una delle più accurate ricostruzioni, che tiene conto del dato filosofico più che di quello politico.

«Nei periodi di profonda crisi - scrive il curatore, Luigi Iannone - gli intellettuali hanno il dovere di esplorare tutte le strade possibili, anche le più ardite», da notare che alcune originalità dei conservator-rivoluzionari della stagione di Weimar troveranno germoglio decenni dopo, molto lontano, negli Stati Uniti, dove l’organicismo spirituale animerà i cosiddetti neo-conservatori.

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