Le idi di marzo, 23 pugnalate per entrare nella leggenda

Il 15 marzo del 44 avanti Cristo, Cesare morì nell'agguato teso da Bruto Cassio per uccidere un tiranno che voleva sopprimere le antiche libertà repubblicane. Furono però sconfitti da Marcantonio e Ottaviano, e quindi condannati dalla storia. Mentre il «Divo Giulio» venne cantato da pittori, musicisti e scrittori come sinonimo della vittima del tradimento

Le idi di marzo, 23 pugnalate per entrare nella leggenda

Colpito alla schiena, Giulio Cesare si gira verso il congiurato Publio Servilio Casca Longo lo spinge lontano con forza. È il segnale, gli altri congiurati si lanciano su di lui. Cesare riesce a tenere loro testa fino a quando non vede anche Marco Giunio Bruto venirgli incontro. Allora si copre il capo con la toga e, esclamando «Anche tu, Bruto figlio mio», si lascia trafiggere dalle ormai storiche 23 pugnalate. O almeno è quanto ci hanno tramandato i cronisti dell'epoca. Ma tanto è bastato affinché il personaggio da storico diventasse anche leggendario. Conquistando un posto di rilievo nella letteratura, ispirando pittori, musicisti, scrittori e drammaturghi, da Dante Alighieri a William Shakespeare.
Cesare cade sotto i pugnali dei cospiratori le idi di marzo del 44 avanti Cristo, vale a dire il 15 marzo. Tra loro anche il figlio adottivo Bruto, che poi Dante metterà all'inferno come simbolo di tradimento, insieme a Cassio, altro congiurato, e Giuda. In realtà il vero «traditore» è proprio la vittima in quanto, dopo aver conquistato nuove province e sconfitto Pompeo, si appresta a sopprimere la vecchia Repubblica. Negli ultimi anni di vita è riuscito infatti a farsi nominare «dictator» nel 49, carica poi rinnovata nel 47, divenuta decennale nel 46 e infine trasformata in perpetua dal 44. Tanto da farlo ritenere da molti storici, contemporanei e non, il primo imperatore di Roma. Dunque, per il senso che poteva avere all'epoca, i congiurati sono dei sinceri «democratici» insorti contro un tiranno che vuole sopprimere le antiche libertà. Bruto a Cassio vengono poi sconfitti, e uccisi, a Filippi, e come ben si sa, la storia viene sempre scritta dai vincitori. L'eredità di Cesare viene raccolta da Ottaviano, suo nipote nonché altro figlio adottivo, che pensa di legittimare il proprio operato partendo proprio dalla glorificazione del suo prozio.
Cesare generale, oratore e scrittore diventa così il simbolo dei frutti velenosi dell'odio e dell'invidia e come tale tramandato ai posteri. Anche se il primo a cantarne le gesta sarà proprio...Giulio Cesare che nei «Commentarii de bello Gallico» e «de bello civili» parla di se in terza persona. Nel Medioevo la sua fama non si affievolisce e diventa protagonista della «Historia Regum Britanniae» di Goffredo di Monmouth, del romanzi «Les Faits des Romains», della «Chanson de geste». Nella Divina Commedia, Dante Alighieri lo mette nel Limbo, insieme con Enea, Omero, Ovidio, Orazio e Lucano. Mentre oltre ai suoi assassini, Bruto e Cassio, anche la sua amante, Cleopatra, finisce all'Inferno. La guerra civile e la morte di Cesare sono infine raccontate ne «Il racconto del Monaco» di Geoffrey Chaucer.
Fin dai tempi del cinema muto, è stato protagonista di infinite pellicole e nel tempo ha avuto il volto di Claude Rains, Marlon Brandon, John Gavin, Rex Harrison, John Gielgud. Senza dimenticare le innumerevoli serie televisive, l'ultima è una produzione internazionale ancora in onda dal 2010 sulle principali emittenti di mezzo mondo. E non mancano le parodie, come quella di René Goscinny e Albert Uderzo, i «papà» di Asterix, un fumetto poi trasposto al cinema dove il «Divo Cesare» è interpretato prima da Klaus Maria Brandauer poi Alain Delon. Giulio Cesare appare al centro di infiniti dipinti che fissano i momenti salienti della sua vita come la resa del capo gallo Vercingetorige e l'agguato delle idi di marzo.

Ed è protagonista di «Giulio Cesare in Egitto», opera settecentesca di Georg Friedrich Händel, per altro sul libretto usato il secolo prima da un compositore minore, Antonio Sartorio, per un dramma dallo stesso titolo. Dunque l'agguato di quel lontanissimo 15 marzo ha forse spento un tiranno, ma anche acceso una leggenda rendendo immortale quel «Tu quoque, Brute, fili mi!» di oltre 2 mila anni fa.

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