Immacolata, vedova-bimba dell’incubo ThyssenKrupp

Lei ha 34 anni e tre figli piccoli: è la vedova di Antonio Schiavone, vittima del rogo all’acciaieria di Torino. "Mio marito era felice del suo lavoro e non ha mai portato a casa la paura". "Giulia, 6 anni, mi ha chiesto: papà è morto? Ho risposto sì e lei è scoppiata a piangere"

Immacolata, vedova-bimba dell’incubo ThyssenKrupp

nostro inviato a Envie (Cuneo)

Appena sveglio, dentro la culla, Michele stira le braccia lunghe una spanna e sorride come un arcangelo. È l'unico beato, in questa famiglia. Non gli passano strani pensieri per la testa. Nonna Vincenza lo prende in braccio e se lo strapazza un po', come un peluche tenerissimo: «È così buono. Mangia e dorme. Basta guardarlo e si mette a ridere. Meno male che saprà solo fra tanto tempo…».
Scene di vita familiare, più di un mese dopo. Il luogo: Envie. È un villaggio tranquillo agli estremi confini della provincia cuneese, verso nord, dove la pianura finisce e le case cominciano ad arrampicarsi sui primi prati alpini. Immacolata vedova Schiavone apre il suo cuore gelato di vedova bambina. Così devo definirla, perché 34 anni sono davvero troppo pochi per crescere da sola tre bambini piccoli. O forse, vai a sapere: potrebbero essere proprio loro la terapia choc per sgomberare l'anima dalle fosche riflessioni. Michele, l'ignaro bambolotto, non ha ancora quattro mesi. Quando sarà più grande, in un giorno qualunque, si accorgerà che i suoi compagni d'asilo troveranno sulla porta un papà ad aspettarli. Quel giorno chiederà perché mai nessun papà aspetti lui, e allora mamma Immacolata dovrà raccontare per la terza volta la stessa storia. Quella che nella mattinata del 6 dicembre scorso, mentre andava in macchina all'obitorio di Torino, ha già raccontato a Giulia, 6 anni, e Giada, 4 anni, da poco orfane.
Che cosa si dice, signora Immacolata, in mattinate così atroci? Che cosa si inventa? La vedova bambina, già forte come una matriarca, risponde con voce calma e dolcissima. Sul suo viso roseo, leggo solo dignità. «Le avevo caricate in macchina dicendo che dovevamo andare a Torino dai nonni. Nel tragitto, per telefono, ho chiamato uno psichiatra consigliato dalla pediatra. Mi ha detto di essere subito sincera. Così ho fatto. Ho iniziato parlando di un incidente a papà, Giulia non mi ha nemmeno lasciato finire. Ricordo la sua domanda a bruciapelo: è morto? Ho detto sì, piccola, papà è morto. Lei ha cominciato a piangere…».
Per Michele, che adesso non capisce, la sua mamma ha già pronta però un'altra storia bellissima. Gliela racconterà al momento opportuno. Da dove comincerà? Svelata la triste fine, sarà dolce e salutare risalire all'inizio, per ritrovarci tutti quanti l'aroma soffuso dei sentimenti sinceri. Vero, Immacolata? Gli occhi soltanto un po' lucidi, la prima vedova dell'eccidio ThyssenKrupp rilegge un libro molto personale: manca solo una pagina, l'ultima, strappata crudelmente dalla negligenza degli uomini.
«Io e Antonio ci siamo conosciuti nel '97. Stavamo tutti e due a Torino. Io aiutavo il papà in una piccola azienda di trasporti. Un giorno sono andata alla piscina comunale con mia cugina. Ci ha presentati lei, era suo amico. Antonio, diplomato perito tecnico, lavorava già alla ThyssenKrupp. Me ne parlava così contento…».
E come no. Sarà bene che ce lo ficchiamo bene in mente: non è vero che certi mestieri i nostri ragazzi non li vogliono più fare, che li lasciano a senegalesi e pakistani. Antonio, e con lui i suoi colleghi, era felice di questo lavoro. «Sì - continua la sua vedova - lo faceva con passione. Diceva che gli evitava la noia della catena di montaggio. Col passare del tempo le sue responsabilità erano aumentate, fino a diventare “primo addetto”, una specie di capoturno, credo».
Paura, di questo lavoro? Immacolata sospira: «Lui era così ottimista. Me lo presentava così bene. Ogni tanto arrivava con qualche taglio, ma diceva che era inevitabile, lavorando le lamiere. Sinceramente, non ha mai portato a casa la paura…».
I due ragazzi si sposano tre anni dopo il primo incontro, nel 2000. Anche questo dobbiamo ficcarci in testa: guarda caso, ci sono ancora ragazzi che hanno il coraggio di sposarsi con tanti sogni in testa e pochi soldi in tasca. Immacolata e Antonio avrebbero l'età dei bamboccioni, ma accettano la sfida. «I primi tempi vivevamo a Torino, in quaranta metri quadri, camera e cucina. Ma le giuro, eravamo felici. Poi è arrivata Giulia, poi è arrivata Giada. A quel punto, davvero, non ci stavamo più. Abbiamo cominciato a pensare come uscirne. Certo, comprare casa era impossibile, con milleduecento euro al mese…».
Immacolata si guarda attorno: la cucina giallo antico, il caminetto, il salotto rinfrescato. E al piano di sopra le due camere da letto. È la piccola cascina che i suoi avevano acquistato una ventina d'anni fa, per tirare ogni tanto il fiato in questo angolo di verde, sotto un campanile, all'ombra delle frescure alpine. «Era il 2004: abbiamo preso un piccolo prestito, qualcosa ci hanno dato i genitori. Così abbiamo messo il riscaldamento e abbiamo sistemato gli ambienti. Antonio sapeva quel che l'aspettava: sarebbe diventato un pendolare. Un'ora all'andata e un'ora al ritorno, anche la notte, per via dei turni. Ma non ne ha mai fatto un problema. Viaggiava con la “Uno” a gas. Non è un peso, diceva. Lo faceva soprattutto per le bambine: voleva crescessero all'aria buona, e nel clima familiare di questi paesi ancora così umani».
È una storia molto semplice. Anche questa, però, una storia di Italia reale, come piace dire al lessico di tendenza. Immacolata la rivela con orgoglio e con rimpianto. «Ultimamente, grazie agli straordinari, Antonio guadagnava fino a 1400 euro mensili. Non tantissimi. Eppure abbiamo sempre pensato anche al maschietto. Sapevamo di potercela fare. Lui era un capofamiglia con tanto entusiasmo, generoso, altruista. Non l'ho mai sentito dire sono stanco. Non temeva il futuro. Neppure a giugno, guardi, il mese peggiore, quando la proprietà ha annunciato la chiusura. Capivo che era preoccupato, ma si era subito rimboccato le maniche. Troverò un altro lavoro, mi diceva, stai tranquilla. Aveva presentato domande qui nella zona, per avvicinarsi a casa. Aspettava risposte. Sono sicura che qualcosa avrebbe inventato. Anche perché nel frattempo è arrivato Michele…».
Terzo figlio. E la ThyssenKrupp che annuncia il tante grazie, ma chiudiamo qui. Eppure Antonio Schiavone, giovane, italiano, per niente bamboccione, guarda avanti. Sembra il copione di una fiction-revival, genere com'eravamo lanciati nei favolosi anni Sessanta, ma è soltanto la vita comune di due ragazzi d'oggi, dignitosi e per bene. Che sanno lottare. E che sanno apprezzare. «Eravamo troppo felici. Avevamo tutto quello che sognavamo. Queste quattro mura erano il nostro nido. I bambini erano la nostra gioia e il nostro futuro. Lui tagliava l'erba in giardino e mi buttava la voce. Dedicava tutto il tempo alla famiglia. Unica distrazione, la Juve. Davvero, non chiedevamo altro. Pensavo di essere fortunata, nella vita…».
Arrossisce un poco. Poi svela anche i sentimenti più segreti. «Lo può scrivere, non mi vergogno: eravamo molto innamorati. Ci sentivamo un sacco di volte al giorno. Anche quella sera. Mi ha chiamato intorno all'una. Era spiaciuto perché l'avevamo atteso per una cena con degli amici, che festeggiavano il compleanno di loro figlio. Aveva provato a chiedere un permesso, ma nessuno l'aveva sostituito. Gli avevo detto che non era grave, ci eravamo dati la buonanotte nel solito modo dolce…».
È passato più di un mese. Già mi manca tutto di lui, dice Immacolata. Adesso che i clamori e le cerimonie si sono spenti, il dolore è una faccenda privata. Bisogna rimettere assieme qualche pezzo. Provare a ripartire, convivendo accanto a un vuoto, fingendo di non pensare. «Per fortuna - spiega - ho i miei genitori e la mamma di Antonio, anche lei vedova. Fanno i turni qui in casa, mentre io vado a Torino per mille problemi. Tutto questo trambusto, se non altro, mi evita di pensare al dolore. In questi giorni, purtroppo, sto cercando casa. È il primo effetto della disgrazia. Devo avvicinarmi ai nonni, che abitano in città. Così non possiamo continuare a lungo».
Immacolata non parla delle sgangherate collette - un pugno di euro a testa - maturate in Parlamento. Preferisce parlare dell'affetto dei compaesani, dell'appoggio ricevuto concretamente dal sindaco Chiamparino. Il Comune le troverà un alloggio ad affitto facilitato. Però ci andrà solo dopo l'estate: «Fino a giugno, non sposto le bimbe dalla scuola e dall'asilo. Poi traslocheremo. Mi spiace tanto, perché qui in paese stavamo così bene. Però mi consola una cosa: penso che torneremo qui ogni venerdì sera, perché è questa la nostra casa».
La nostra casa, la nostra casa. Mentre tutto un Paese si avvia lentamente a chiudere un altro capitolo delle sue pubbliche vergogne, Immacolata combatte già la dura lotta personale del dopo. Lei e le sue creature. L'aspettano lunghi giorni di dolore, di fatiche, di sconforto. Non se lo nasconde. Ma sa anche dove trovare le energie che le servono. Qui al paese, dove nessuno dimentica, neppure dopo il funerale. Ogni fine settimana, se l'è giurato, tornerà tra le mura del suo cascinale, dove tira l'aria pulita della montagna e la brezza leggera del ricordo.

La paura è che possa trovarci anche il vento pesante della malinconia. Ma con parole di vedova fiera, la matriarca bambina butta subito fuori di casa tutti gli spettri: «No, nessun timore. Questo era il nostro nido. Mi farà solo bene respirare l'atmosfera della mia storia felice».

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