«Tutto fatto... signore?». Renato non ha neanche infilato la testa dentro casa, neanche sfilato la chiave della toppa e già chiede. Leva le scarpe, infila la pantofola, mi scruta con lansia di chi deve scegliere tra assoluzione o pena capitale. Alzo le mani al cielo e lui è già pronto a sprofondare. «No fatto, no fatto? Lei signore dimenticato?». Ecco: torno alle tre e mezza di notte, alle otto mi faccio martellare anima e cervello dalla sveglia impietosa e tu lì a dubitare. Certo non erano proprio le otto. Mentre strisciavo giù dal letto e accendevo il computer seran fatte le otto e nove. Forse eri già spacciato, ma io non lo sapevo. «Ce la possiamo fare - mi ripetevo - in fondo quanti saremo a rinunciare al calduccio delle coperte per un filippino». Non avevo fatto i conti con gli informatici di www.interno.it.
Alle otto e 13 il programma è una biscia paralizzata dal gelo dicembrino. Quando finalmente rintraccia la domanda «modello A» per il lavoratore «Renato... » sono già le otto e 25. Premo il tasto «visualizza», sfioro quello «invia» e lincertezza mi ruba altri minuti preziosi. Lo so caro Renato in quella minuta voragine temporale qualche decina di migliaia di albanesi, marocchini ed egiziani calpesta le tue speranze, affossa la tua voglia di regolarità. Ma alla coscienza (sporca) non si comanda. Da due anni lavi i miei calzini, pulisci i pavimenti e io ti pago da irregolare. Ora quella domanda in sei paginette pronta a precipitare nel cyberspazio mi sembra allimprovviso uninequivocabile auto confessione. Tu non finirai mai nel quorum dei 710 filippini ammessi in Lombardia. In compenso io mi ritroverò la Finanza in casa. E se ti rispediranno via dovrò pure pagarti il biglietto di ritorno. È tutto scritto a pagina quattro della maledetta confessione. «Il datore di lavoro simpegna nei confronti dello stato al pagamento delle spese di viaggio per il rientro... nel caso di espulsione».
Rileggo la frase quando lei, ridestata da sveglia e bollitore, esige chiarimenti sulla mia voglia di mattina. Ci pensa trenta secondi e mi piazza unaltra pugnalata. «Amore hai letto quel articolo del Il sole-24 ore? Diceva che potresti doverlo assumere da quando è arrivato in Italia... ». Dallo stomaco sale alla testa un vomito mostruoso. Una vampata di contributi e tasse non versate, unassassina spada di Damocle fatta di tanti euro e troppi zero. Mi volto, ti guardo terrorizzato. Tu da brava femmina intuisci immediatamente. «Non vorrai mica tirarti indietro... Renato si fida di te, è nelle tue mani, non puoi fregarlo. E poi guarda sei già in ritardo... e quel poveretto si fida di te». Per convincermi che hai torto ho bisogno di altri tre minuti. Non dovrò, mi ripeto, assumere Renato per gli anni di lavoro precedenti perché lui è solo un fantasma. Per www.interno.it lui non esiste. È ancora lì nel suo sperduto isolotto filippino in attesa che una buonanima italiana si decida ad evocarlo. Sto avviando un sortilegio cibernetico, sto implorando di far entrare nel nostro paese un nome comunicatomi dalla provvidenza ed io spinto da celestiale bontà sono pronto ad accoglierlo. Non solo. Se ce ne sarà bisogno, come pretende la confessione pronta allinvio, gli pagherò pure un alloggio adeguato o gli farò una cuccia nel mio salotto. Trenta secondi e ci ripenso. Ma per presentarsi allambasciata italiana di Manila a ritirare il permesso dentrata in Italia come farà? Ci proverà con quello straccio di passaporto con un visto scaduto nel 2005 che ho esaminato due giorni fa? Insomma sarà espulso ed io dovrò pagarne lespulsione e ritorno? «Amore è tardissimo, Renato lo perdiamo».
Sono le 8 e 34 e io rassegnato premo il tasto dinvio. Tu, caro Renato sei già fottuto, calpestato, macellato. Ed io con te. Ma non ti posso proprio dire tutto. Tu sei lì sotto con una pantofola, una scarpa e locchio che implora.
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