Cultura e Spettacoli

Imparare a vivere in Via Pál

Il romanzo di Ferenc Molnár ha commosso, con il coraggio del più debole, generazioni di lettori

Coerenza, eroismo, fedeltà, sacrificio, perdita. Solo cinque parole. Cinque paroline a cui però non basta il dizionario a dare un senso. Spiegarsele, accettarne il peso, l’inevitabile costo, non è mai stato semplice e lo è sempre meno in un mondo che sembra andare da tutt’altra parte.
I ragazzi della via Pál di Ferenc Molnár (Budapest, 1878-New York, 1952) è una delle riflessioni più compiute sul tema. Una riflessione nata in forma di romanzo per ragazzi, non per banalizzare, ma semplicemente perché quanto c’è da imparare in materia o lo si impara da giovani o non lo si impara mai. Da grandi, di queste cinque paroline si può solo imparare a scordarsi. O magari si esercita la vis retorica per propinarle agli altri, ma non certo diventando, improvvisamente, forniti dell’ingenua buona coscienza necessaria a praticarle.
Ben lo sapeva Molnár quando pubblicò questo romanzo nel 1907. Ungherese di nascita, ebraico d’origine (il vero cognome è Neumann), aveva le idee molto chiare sulla difficoltà di vivere sulla base di questi cinque «comandamenti». Sapeva quanto era costato agli ungheresi il tentativo di sfuggire al controllo dell’Impero asburgico, di diventare nazione. Sapeva quanto fosse difficile essere ebrei e dover difendere la propria identità. Abbastanza perché nelle sue opere, per lo più teatrali, ci sia sempre quello che i letterati paludati chiamano un «profondo senso critico verso le ingiustizie sociali» ma che ai lettori normali appare più semplicemente per ciò che è: un odio viscerale contro gli arroganti, una commossa vicinanza al debole.
E questa sua particolare vena, ne I ragazzi della via Pál, Molnár l’ha distillata tutta, l’ha esplorata sino al fondo. Ci sono dei ragazzi che sentono di possedere una piccola patria alla periferia di Budapest: il Grund. Un campo terroso e bruttarello, destinato agli appetiti di qualche palazzinaro, piantato tra la via Pál e la segheria di Via Mária. Ci sono dei ragazzi di periferia che hanno un «generale» buono, giusto e forte: János Boka. Un «soldato semplice» buonissimo, lealissimo e troppo gracile, Ernõ Nemecsek. Attorno a loro, al loro microcosmo non esente da beghe e da arrivismi, come la vanagloriosa volontà di fregiarsi del titolo di tenente o capitano, tiranneggiando Nemecsek, una città che diventa moderna, gli adulti con la loro tendenza a vietare, il conflitto con le «camicie rosse», i bulli del centro che hanno il loro covo all’orto botanico e sono sempre pronti a urlare «sequestro!» rubando le biglie ai bambini più deboli.
E nel momento in cui il piccolo recinto di terra e pietre verrà aggredito, quando la forza e l’ingegno di János Boka non basteranno a resistere all’assalto delle «camicie rosse» comandate da un feroce, ma cavalleresco, Feri Áts (curiosamente Feri è il diminutivo di Ferenc, il nome dell’autore), all’ingerenza degli adulti e al tradimento, sarà il fragile Nemecsek, mortalmente malato, a ribaltare la situazione, a trasformare la febbre che lo mangia da dentro in furia disperata e vincente.
Eppure questo è tutt’altro che un lieto fine. Almeno non quel fine moralistico-sdolcinato-patriottardo di cui parla chi del libro ha letto solo versioni tagliate o visto riduzioni cinematografiche edulcorate. Perché il piccolo Nemecsek in nome della coerenza muore: e non è una bella morte. Mentre delira nella sua stanza, il padre, un povero sarto, è costretto a tener dietro alle mene di un cliente cocciuto. E quando arrivano i soci della «società dello stucco» a scusarsi con Ernõ per averlo ingiustamente cacciato, egli non può ascoltarli, si è gia spento. Vicino a lui solo János Boka, il «generale» costretto a imparare, sulla pelle altrui, gli esiti estremi del coraggio, che dovrà, sopravvivendo, accettare la più crudele beffa: dopo tanto titanica lotta, il Grund verrà immediatamente edificato. Alla fine dei Ragazzi della via Pál, quasi tutti i ragazzi hanno le lacrime agli occhi e crescono.

Le hanno anche gli adulti per bene, perché grazie a Dio sono cresciuti, ma non troppo male.

Commenti