Da impegnati a conformisti La parabola dei registi italiani

VeneziaLa Mostra del cinema di Venezia ha messo in luce tesori e povertà e, fra queste ultime, l’aggravarsi della condizione mentale degli italiani, preda di superficialità e conformismo. Ho vissuto parecchie giornate al Lido. Ho molto amato un film folle e disperato e tecnicamente stravagante come Amore Carne di Pippo Delbono che non ha avuto nemmeno una citazione. Siamo tutti felici che abbia vinto un film di puro cinema letterario come Faust di Aleksandr Sokurov e penso come tutti che Polanski abbia pagato caro la sua sfrontatezza per l’antico stupro e la sua più recente fuga.
Ma ciò che mi preme sottolineare è la deriva ipocrita del nostro Paese, preda perenne di una guerra civile mentale che si svolge a livelli sempre più rozzi e bassi. La questione della folla di film sull’immigrazione e i clandestini è centrale perché mostra bene che cosa sia oggi il cinema: una variante del dibattito televisivo con l’introduzione di rari elementi di estetica. Prendiamo Terraferma di Crialese. È un bellissimo film perché ben fatto, ben scritto, ben girato, ben interpretato e quasi devastato da una fotografia troppo smagliante. L’ho goduto e applaudito, sicché sono stato contento vedendolo premiato per banale patriottismo. Il suo carattere esemplare sta nel vero tema che a mio parere non è l’immigrazione dei disperati che arrivano col gommone, ma il conformismo truccato. Non mi è piaciuto affatto, invece, l’osannato Villaggio di cartone di Ermanno Olmi, che spinge la ritualità del conformismo oltre i limiti sopportabili della liturgia in un’orgia di riferimenti religiosi ridondanti e aggressivi quanto insignificanti.
Il conformismo italiano si riconosce perché va sempre a parare nel conflitto fra una sinistra e una destra entrambe lontane dagli standard delle destre e delle sinistre dell’Occidente. Nel film di Crialese è stata inserita una scorciatoia che è la sua cifra e insieme il suo limite, ma paradossalmente anche la ragione del suo successo. La scorciatoia consiste nel far credere che l’Italia è una variante di un Terzo Reich in cui la polizia si comporta più o meno alla maniera delle SS e i clandestini, se ospitati da bravi e umanitari pescatori, sono i nuovi ebrei che non hanno bisogno della stella gialla perché il colore della pelle li distingue. L’insistenza con cui si seguita a suggerire che un governo di centrodestra è fascista e che l’Italia è uno Stato di polizia, andrebbe di pari passo con l’ipotesi che un governo di sinistra, magari guidato da Prodi, equivalesse alla Germania dell’Est e ai metodi della Stasi, quella delle Vite degli altri. La massa intera dei gommoni e dei luoghi comuni, purtroppo, forma una poetica autonoma che non ha più nulla a che fare con la viva carne della società italiana macellata da problemi gravi e antichi e incancreniti, fra cui quello dell’immigrazione, e alla fine uno pensa, di fronte al film di Crialese, che è una splendida opera ma non si sa da quale mondo provenga e a quale mondo appartenga.
Sappiamo adesso con quanti e quali alchimie sono stati concessi i premi e i giudizi di questa mostra che comunque ha fornito un buon prodotto e cinema di alta qualità. Ma queste vicende di retroscena ci sembrano banali e insignificanti di fronte alla vera questione, il risultato finale, che è quello dell’identità del nostro Paese. Chi diavolo siamo? Da dove veniamo? Che cosa pensiamo? Ieri l’altro, e il Giornale ne ha riferito, Le Monde traeva onestamente la conclusione che, giudicando dai film portati a Venezia, l’Italia è uno schifoso Paese razzista, intollerante e bieco, cialtrone e poliziesco, guidato da epigoni di Himmler ma per fortuna salvato dai ragazzini, per citare un bel titolo poetico di Elsa Morante.
Ieri Vincenzo Cerami ricordava che una volta il cinema era cinema e che persino i critici, ricordo i miei amici Cosulich e Kezich, scrivevano critiche lunghe, dotte, appassionate di opere o di prodotti di artigianato che erano film e soltanto film e non nascevano dall’utero televisivo delle news e dei réportages.

Per questo consola e fa da alibi a tutto la vittoria di un grande artista e artigiano e illustratore come Sokurov che ha restituito allo schermo il tema iperrealista del patto col diavolo, del contratto con un demonio che probabilmente aggiornato, oggi chiede soltanto una festosa distorsione della realtà, una manipolazione ben vestita e ben filmata, in cui anche la scena insopportabile in cui un pescatore italiano prende a bottigliate le mani dei naufraghi (mai accaduto, come il resto) diventa un topos poetico, un luogo d’incontro fra estetica e conformismo, in definitiva un trucco ideologico appena mascherato da decorosa e godibile opera d’arte.

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