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Impossibile arretrare. È in gioco la sicurezza della nostra civiltà

Una vittoria dei talebani sarebbe una vittoria del terrorismo che vuole distruggere l’Occidente

Impossibile arretrare. È in gioco la sicurezza della nostra civiltà

Si sta, anche quando si muore. Questa è una sporca guerra giusta. L’Afghanistan è la frontiera dell’Occidente: ci siamo per noi, prima che per loro. Per l’America, per l’Europa, per il futuro. Non si può tornare indietro da se stessi. Piangiamo oggi e ci riarmiamo domani. Questa guerra non si può perdere per abbandono. Perché è nostra. È la diretta conseguenza dell’attacco alle Torri Gemelle, è l’effetto secondario dell’11 settembre 2001, è la risposta a un’offesa vigliacca, all’assalto contro gente come noi. Non è un conto aperto di Bush, né un nuovo fronte di Obama. Dentro c’è uno scontro che non si chiude a Kabul, Kandahar, Herat e Jalalabad. Passa da New York e arriva nelle città. Sono tutti i militari che incontriamo armati a difesa dei nostri monumenti. Sono i controlli negli aeroporti, la paura di viaggiare, la voglia di restare a casa. Questa guerra è fatta da divise che non hanno bandiere: difende un popolo senza nazionalità, reagisce per la dignità di una vita normale. È la risposta a New York sfigurata nel 2001, a Madrid colpita del 2003, a Londra esplosa nel 2005. È l’orgoglio di una rivalsa.

Non c’entra con l’Irak, non ora. Perché chi confonde regala un alibi ai kamikaze. Lo scontro per Bagdad nacque tra le polemiche che trascina ancora adesso. Era giusto anche quello, quando fu deciso. Poi s’è infognato nelle carte dell’Onu, nelle diatribe ideologiche. Ha portato alla fine di Saddam e nessuno pianga per questo. Senza Hussein è un mondo migliore, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo. Si può discutere qualcosa dell’Irak, l’abbiamo fatto, l’abbiamo sentito, l’abbiamo elaborato. Non si può per l’Afghanistan. Nessuno, nella zona della Casa Bianca pensa che il ritiro sia un’ipotesi possibile. Lo dice solo qualche intransigente liberal del Congresso seguito dai pacifisti europei che considerano evidentemente i Talebani come un folcloristico gruppo etnico.

Obama no. Ha vinto le elezioni dicendo che non avrebbe mollato l’eredità di Bush. «Porteremo a compimento la missione anti-terrorismo». Ha aumentato del 50 per cento i soldati, ha cambiato i vertici militari, ha scelto i generali che hanno guidato per Bush la guerra in Irak, bombarda ogni giorno, fa sparare ogni minuto. Il Pakistan ci va di mezzo? Fa niente. Se una bomba colpisce i Paesi confinanti è un male necessario, per il presidente Usa. Perché vuole vincere, deve vincere. Allora ha chiesto anche più impegno agli alleati. Noi. Tutta Europa, tutto l’Occidente. Siamo lì per sopravvivere, per difenderci. Si tornerà a missione compiuta.
Questa è una guerra che non tiene conto di una normale dialettica pacifisti-interventisti: qui non si tratta di voler conquistare qualcosa, qualcuno, soldi, potere. Qui siamo andati a cercare di stanare chi ha dichiarato il suo rancore nei confronti del nostro modo di vivere, chi vuole imporci un mondo dove le donne sono sottomesse, dove gli uomini sono combattenti nel nome di un’idea che fa finta di richiamarsi all’Islam. Siamo andati a dirgli, cercando caverna per caverna, che c’è un mondo che non può farsi mettere sotto da un gruppo di una ventina di kamikaze in grado di pilotare aerei bomba. I talebani avanzano, non mollano, crescono, si prendono città, villaggi, munizioni, spalleggiati da quella che chiamiamo Al Qaida, cioè gli assassini dell’11 settembre, i violentatori dell’umanità.

I nostri soldati sono lì per fermare loro. Per limitare un’avanzata che non è solo nel territorio afghano. Se i talebani e i loro amici terroristi vincessero in un posto che consideriamo lontano, ce li troveremmo da noi. Subito. Perché vogliono tutto. Non si fa un passo indietro, non si può. Non si può andar via prima di finire un lavoro. L’Afghanistan democratico è un’utopia, magari. L’Afghanistan pacificato pure. L’Afghanistan normalizzato non lo è. Senza terrorismo, senza Al Qaida. Com’era, come è stato. Chiedetelo a un militare, a uno dei colleghi dei sei parà morti: piangerà adesso, poi si rimetterà la mimetica per dare a chi non ha mai imbracciato un fucile la libertà di continuare a non farlo. Per sperare di entrare liberi nei musei, nelle stazioni, oppure salire tranquilli sui tram e nelle metropolitane. Non a Kabul, qui: Milano, Roma, Firenze, Bologna.

Sotto casa.

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