Cristiano Gatti
Si dice generalmente che gli uomini abbiano in testa un altro chiodo fisso. Chinaglia no, è un uomo particolare: ha in testa la Lazio. La sua vita supersonica, che sin da piccolo lo porta in giro per il mondo e in giro per guai, bene o male ha sempre come inevitabile approdo la sponda azzurra del Tevere. Hai voglia però di ricostruire per filo e per segno questa biografia di tumulti e di passioni. Servirebbe tutto un altro spazio. E anche tutto un altro tempo. Allalba dei sessant'anni, che compirà il prossimo 24 gennaio, la bandiera laziale allunga con l'ultimo anello dellordine di custodia, il solo che mancasse, una lunga catena di alterne esperienze esistenziali. Davvero, a questo punto, può dire d'averle provate tutte. Per credergli, basta sfogliare velocemente la sua vita, saltando qua e là da una pagina all'altra.
Il prologo. Giorgio è di Massa, dove nasce e cresce in una famiglia molto povera. Suo padre lavora saltuariamente nelle cave di marmo. Il piccolo non ha ancora sei anni, quando il capofamiglia trova impiego fisso in una fonderia del Galles, a Cardiff. Primi anni Cinquanta: storia comune a tante famiglie di quell'Italia con le pezze al sedere, uscita in ginocchio dalla guerra. Anche dopo, nel seguito, la storia è classica. A forza di dare spallate, la famiglia Chinaglia riesce ad aprirsi un pertugio nelle rigide diffidenze della società locale. In un tripudio di debiti e di emozioni, viene inaugurato solennemente il ristorante Chinaglia, piatti tipici d'Italia. Little George dà una mano come lavapiatti. Nei giorni di festa, va in parrocchia a tirare quattro calci. È lì, più avanti, che lo nota un giorno Sir Mel Charles, fratello del popolarissimo John. Vieni a giocare nello Swansea, gli propone l'osservatore. Il ragazzino ci prova e immediatamente convince tutti con un tiro potente, un gran colpo di testa, ma soprattutto con un carattere da bisonte. Va dentro deciso, in campo e nella vita. Così, a diciassette anni è già al Cardiff, in prima divisione. E l'anno successivo c'è la vera svolta: il papà riesce a fargli ottenere un provino nella squadra della sua città, la Massese. Giorgio non ha molta voglia d'affrontare un altro viaggio della speranza, benché a ritroso, ma alla fine si rassegna. Giunto sul posto, non serve molto agli scafati osservatori italiani per intravedere subito l'identikit del grande centravanti. Alle soglie dei vent'anni, Chinaglia è nella serie C italiana, dove comincia subito ad apprezzare il primo aroma dei guadagni. L'anno dopo è già all'Internapoli, che sborsa la cifra record di 96 milioni. Due campionati, molti gol. Ormai è una promessa, ormai è sotto la lente d'ingrandimento dei grandi club. All'asta, vince la Lazio.
Un capitolo dopo l'altro, siamo all'epopea romana. Gli inizi non sono brillantissimi. In un paio di campionati, Giorgione segna con buona costanza, ma non abbastanza per evitare la traumatica retrocessione in B del '71. È un periodo agitato. Con i suoi modi sbrigativi da Asterix, in campo e fuori, Chinaglia solleva molte simpatie, ma anche parecchie insofferenze. Arriva al punto di chiedere il trasferimento, soprattutto quando gli arriva la notizia che a sostituire l'allenatore Lorenzo sarà Tommaso Maestrelli. «E chi sarebbe 'sto Maestrelli?», chiede sprezzante. Poi però avrà anche l'umiltà di ricordare la sua retromarcia: «Mi bastò guardarlo negli occhi per capire...». Con l'arma dei forti, la pazienza, Maestrelli riesce in un capolavoro impensabile: trasformare una banda di scalmanati in una squadra. Con Chinaglia a fare da traino. L'anno dopo c'è subito la promozione in A, e nel memorabile 1974 arriva persino l'impossibile: lo scudetto. È la Lazio dei Frustalupi e dei Garlaschelli, dei Wilson e dei Re Cecconi, dei Felice Pulici e del ragazzino D'Amico. È una Lazio un po' vitellona e un po' naïf, che nello spogliatoio non si risparmia scazzottate e bottigliate, ma che in campo riesce prodigiosamente a diventare pura armonia. E là davanti, duro come il marmo di Carrara, inarrestabile come un toro, semina il panico il nuovo divo dell'altra Roma, ormai noto a tutti come Long John. Devastante goleador, Chinaglia è ugualmente efficace nelle intemperanze. Non si può dire che la sua virtù migliore sia la diplomazia. Tanto meno il galateo. A San Siro, una domenica, prende a calci nel didietro il giovane D'Amico, colpevole di non aver rincorso Mazzola. All'Olimpico, dopo un gol nel derby, va ad esultare direttamente sotto la curva giallorossa. Al San Paolo, prima di un infuocato Napoli-Lazio, saluta «il caloroso pubblico partenopeo» con simpatiche corna. Inutile chiedergli moderazione. La personalità è questa: non esce da un collegio svizzero, ha tanta voglia di arrivare e un sacco di amarezze da riscattare. A qualunque costo. Senza andare per il sottile.
Purtroppo per lui, e siamo già ormai alle prime pagine dell'epilogo, il suo carattere lo insegue e lo rovina in nazionale. Portato ai Mondiali tedeschi del '74 come titolare, entra velocemente in rotta di collisione col cittì Valcareggi. Quando questi lo sostituisce nella fiacca partita con il modesto Haiti, Giorgione esce dal campo con inequivocabili gesti di vaffa. Oggigiorno abbastanza regolari, allora come fucilate a un concerto. Travolto dal suo istinto, impigliato nel fallimento della squadra, Long John vede tramontare improvvisamente il sole del successo e sorgere malinconicamente le prime ombre del tramonto. Un paio di campionati tra alti e bassi, poi addirittura la grave malattia di Maestrelli, l'unico che in fondo fosse capace di strappargli qualunque cosa. Nel 1976, la resa: Chinaglia lascia la Lazio per l'America, nuova emigrazione di una vita errante e piena di perché. Stavolta non ha valigie di cartone legate con lo spago, ma una discreta dote di denaro e di ricordi. Oltre oceano l'aspettano la moglie, americana e fuggita dal clima ormai ostile di Roma, nonché le sirene irresistibili del bizzarro calcio stelle e strisce. In campo esercita accanto a Pelè, Beckenbauer, Cruyff. È l'epico museo delle cere di un altro calcio, capace comunque di regalargli con la maglia Cosmos tanti altri gol e tanti altri bigliettoni, fino all'82.
Ma in testa, ogni giorno, sempre lo stesso chiodo. Non quello che perseguita la maggioranza degli uomini: il suo, personalissimo ed esclusivo. La Lazio. Siamo alla storia del Chinaglia dirigente e magnate.
Cristiano Gatti
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