(...) E questo è quello che ci dà forza, anche e soprattutto in questo periodo, in cui Berlusconi non se la passa granché bene, il centrodestra nemmeno e tanti moderati - moderati veri, intendo - si guardano intorno, a volte increduli rispetto a quello che succede nella politica.
Increduli e, spesso, delusi da risse, liti e tradimenti, come noi. Anche perché il bello dei lettori del Giornale è che ragionano, che non si lasciano andare ad adesioni o a entusiasmi fideistici, come se fossero una setta che beve tutto ciò che viene trangugiato. No, non è così. E, se permettete, è qualcosa che dà ulteriore soddisfazione e piacere al nostro lavoro. Perché confrontarsi con persone che fanno della critica e dellanalisi il cibo delle loro menti, è un piacere doppio.
Ecco, in questo periodo, le lettere che parlano del «nostro Giornale» - ribadisco, persino quelle che sospirano perché magari non condividono il passaggio di un articolo dove Tizio attacca Caio e «mi dispiace aver letto proprio sul nostro Giornale che Tizio attacca Caio» - sono ancor più del solito. Come se, in un periodo in cui tutti stiamo perdendo un po di certezze, averne una regali più forza. Quella certezza è «il nostro Giornale». Ed è una cosa che, sinceramente, ci dà ancor più piacere nel fare un mestiere che, davvero, è il più bello del mondo.
Poi, ci sono giorni in cui lespressione «il nostro Giornale» è ancora più forte, più emozionante. E il momento attuale è proprio uno di questi periodi. Da quando abbiamo (ri)cominciato a raccontare le storie della Resistenza tradita e abbiamo (ri)cominciato la battaglia per ridare almeno la memoria a coloro che se la sono vista scippare da ladri di verità e di ricordi, le vostre telefonate al «vostro» Giornale sono ancora più dolci, più emozionanti.
Dallaltro capo del filo sento voci bellissime, con cui mi raccontate le storie delle vostre famiglie, dei vostri morti. Storie spesso riferite da parenti ed amici, come nella più bella tradizione orale, come storie omeriche che ritornano, carsiche, appena qualcuno - in questo caso il Giornale - vi offre loccasione di farlo. E mi fa davvero piacere che anche il Secolo XIX, di cui spessissimo non condivido le scelte, ma che è diretto da una signor giornalista e persona perbene come Umberto La Rocca, ci stia seguendo su questa strada e che abbia aperto il fascicolo sulle morti atroci e sospette di Pegli. Così come ringrazio moltissimo e pubblicamente Enrico Musso, che spessissimo ho criticato, per la sua lettera di ieri.
In questi giorni raccontiamo e racconteremo altre storie. Drammatiche e, però, contemporaneamente, bellissime da raccontare. Perché, in Italia e soprattutto a Genova, cè stato una specie di tacito accordo per negarle, per non raccontarle, per seppellirle. Senza un fiore, senza una preghiera, senza un ricordo. Proprio come quei morti. E così le storie sono un omaggio alla verità e alla memoria. Lennesimo tentativo di scrivere un fiore (di parole) per quei ragazzi, colpevoli solo di aver scelto la parte sbagliata.
Ci tengo a dirlo. Non è un tentativo di riscrivere la storia. Del revanscismo non mi interessa assolutamente nulla. Il mio sforzo è tutto umano, per nulla politico.
E, per lennesima volta, vi ripropongo Il cuoco di Salò, la splendida canzone di Francesco De Gregori - uomo di sinistra, ma di una bella sinistra, che ha davvero poco a che fare con la sinistra genovese, persino con quella di esponenti illuminati del Pd, che pure ci sono - dedicata a quei ragazzi.
Dice: «Alla sera vedo donne bellissime/ da Venezia arrivare fin qua/ e salire le scale e frusciare/ come mazzi di rose/ e il profumo rimane nellaria/ quando la porta si chiude/ ed allora le immagino nude aspettare». Ogni parola ha la ricerca della bellezza in sé: «Sono attrici scappate da Roma/ o cantanti non ancora famose/ che si fermano per una notte/ o per una stagione/ al mattino non hanno pudore/ quando scendono per colazione/ Puoi sentirle cantare».
Il canto sale sempre più incalzante, con gli arrangiamenti di Franco Battiato: «Se questacqua di lago fosse acqua di mare/ quanti pesci potrei cucinare stasera/ anche un cuoco può essere utile in una bufera/ anche in mezzo a un naufragio si deve mangiare/ Che qui si fa lItalia e si muore/ Dalla parte sbagliata/ in una grande giornata si muore/ in una bella giornata di sole/ dalla parte sbagliata si muore».
Gli archi suonano struggenti, le parole pure: «E alla sera dietro a quei monti/ si sentono colpi non troppo lontani/ cè chi dice che sono banditi/ e chi dice americani/ Io mi chiedo che faccia faranno/ a trovarmi in cucina/ e se vorranno qualcosa per cena/ Se questacqua di lago potesse ascoltare/ quante storie potrei raccontare stasera/ Quindicenni sbranati dalla primavera/ Scarpe rotte che pure gli tocca di andare/ Che qui si fa lItalia e si muore/ dalla parte sbagliata/ in una grande giornata si muore/ in una bella giornata di sole/ dalla parte sbagliata si muore.../ Qui si fa lItalia e si muore».
Lo so, non è la prima volta che la cito. Anzi.
Ma è qualcosa che riesce a commuovermi ogni volta che la sento e che ne leggo il testo, che proveremo oggi, nei prossimi giorni e nei prossimi mesi a tradurre in articoli. E quella commozione credo che sia un sentimento che accomuna tanti lettori del «nostro Giornale».
Noi, a raccontare la storia di quel cuoco, ci siamo.
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