Insulti, Cassano come Santoro

Da Santoro a Fini, passando per Cassano: pretendono il rispetto dagli altri, ma sono i primi ad insultare i loro capi. Ma mentre la Samp ha cacciato il suo bomber, il dg Rai ha dovuto accettare il diritto di ingiuria

Insulti, Cassano come Santoro

Che hanno in comune Michele Santoro e il sampdoriano Antonio Cassano? Una maleducata sfrontatezza verso le persone da cui dipendono. Santoro ha mandato a vaffanc.. - imbelletandolo da «affan... un bicchiere» - il direttore generale della Rai, Mauro Masi. Cassano ha dato del «vecchio st...zo», o qualcosa di simile, a Riccardo Garrone, il proprietario-presidente della sua squadra.
Cosa unisce invece Masi e Garrone? Nulla. Perché Masi, nonostante i tentativi di reagire, ha dovuto inghiottire l’insulto di Santoro senza poterlo sanzionare. Garrone, al contrario, ha punito Fantantonio cacciandolo dalla squadra. Uno, il direttore generale, è costretto a inchinarsi alla logica politica della Rai. Infatti, la sinistra ha riconosciuto al giornalista il diritto di ingiuria invocando la libertà di pensiero, che c’entra come un cavolo a merenda. Questo perché Santoro è dei suoi e Masi un lacchè del Cav. Naturalmente, si sarebbe regolata all’opposto se a ingiuriare fosse stato Bruno Vespa e l’ingiuriato di turno un dirigente infeudato nel Pd. Così stanno le cose.
Direte che non tutto è perduto e c’è ancora spazio per restaurare le regole. Masi in effetti non ha gettato la spugna e si è rivolto alla magistratura per chiederle la sanzione che non gli è riuscito di irrogare. L’iniziativa è patetica e il direttore generale ci sbatterà il grugno. Le toghe, conoscendole, trasformeranno un caso che riguarda esclusivamente il rispetto che il dipendente deve al superiore gerarchico, in una brodaglia antigiuridica in cui a prevalere saranno le simpatie politiche. Sarà così confermato che in Rai vige il macello delle regole.
Allora, viva la faccia truce di Garrone. Cassano lo insolentisce. Lui lo sbatte fuori squadra. La Sampdoria perderà il suo campione e il proprietario ci rimetterà un mucchio di soldi. Fa nulla. Garrone, contro qualsiasi logica capitalista, mette al primo posto l’onore, l’ordine gerarchico, i principi della civile convivenza. Ossia, ripristina le regole.
Le regole, queste sconosciute. Ognuno se ne dice affamato e tutti se ne infischiano. Ne pretendono il rispetto dagli altri, le calpestano per sé. Prendiamo Gianfry Fini. Oggi veste il lutto per il caso Ruby, la minorenne marocchina nella grazie del Cav. Col cipiglio del quaresimalista dice che la faccenda è imbarazzante, sta facendo il giro del mondo e mette l’Italia alla berlina dal circolo polare alla Terra del Fuoco. Ovviamente, è il meno titolato a impancarsi. Meno che meno col fare ingessato del moralista senza macchia, i polsini inamidatati, le giacche a otto bottoni per manica del buon borghese tutto regole e perbenismo. Da oltre un anno ha incamerato alla chetichella l’appartamento monegasco di cui era affidatario. La destrezza è da mesi di pubblico dominio ma non ne tira le conseguenze. «Mi dimetterò se risulterà che la casa è di mio cognato», ha detto. È provato, straprovato, balza dai documenti, lo confermano le autorità caraibiche. E lui? Se ne impippa. Si abbarbica alla poltrona di presidente della Camera e ne sfrutta i privilegi con i voli di Stato, le suite a cinque stelle, girando il vasto mondo a spese dell’erario per pubblicizzare sé stesso e il suo nuovo partito. E il pudore? E le regole? Quelli sono per gli altri, io - ficcatevelo bene in testa -, io sono Fini e per me non valgono. Lo dicono anche i magistrati e ora, forte del verdetto, vi querelo tutti.
Già e che dire dei pm romani che escludono la truffa e chiedono l’archiviazione nonostante ammettano che la casa è stata svenduta? Una cosa evidente a tutti, a loro non risulta. Non c’è truffa, non c’è appropriazione indebita, non c’è custodia infedele di un bene di An che Fini doveva tutelare. Nulla di nulla. Nemmeno il principio elementare che la cosa d’altri della quale sei l’affidatario non può poi finire per magia a tuo cognato. Di questo passo, il rapinatore che va in banca col mitra spianato passerà per un cittadino che chiede un mutuo.
E a proposito di regole, ora salta fuori un ex ministro di Prodi, tale Paolo Gentiloni, che chiede il bavaglio del Giornale perché appoggia il Cav al punto da chiamarlo confidenzialmente Silvio. Il quotidiano è del fratello e il conflitto di interessi è perciò palese, dice questo genio dell’ultima ora. Il Giornale è del fratello, i giornalisti, no. E sono loro a metterci la faccia. Lo fanno perché ci credono e questo è tra i pochi fogli che gli permettono di esprimersi. E quanto a lei, Gentiloni, si ripassi le libertà costituzionali tra le quali c’è anche quella di condividere la politica del Cav.
La sua politica appunto, però se ci piace. E anche la difesa dagli attacchi, quando ci paiano ingiusti. Ma pure di dissentirne, se esagera. A me, per dire le storie dei continui festini o della telefonata in questura per Ruby danno ai nervi. Tutta questa dimestichezza con Lele Mora e il fatto che le ragazzotte della sua scuderia abbiano il numero del suo cellulare più segreto sembra una stranezza. Non lo dico per moralismo, Cav. Ma perché se le cerca. Poi si lamenta che non la lasciano lavorare. A parte che si può governare anche tra le polemiche, e la invito farlo con lena. È lei però a fornire l’offa agli avversari. Molti suoi elettori saranno arcistufi di dovere, per le sue mattane, rintuzzare gli sberleffi di parenti e amici. Lei rivendica la libertà di comportarsi in privato come meglio crede. Sbaglia. Il mondo - non solo gli italiani - sono puritani e non tollerano l’eccessiva disinvoltura di un premier. Le cose stanno così. Lei non può cambiarle. Né può accontentarsi della svampita assoluzione di Zucchero Fornaciari, che neanche la vota.
Le bandane, le barzellette osé, i suoi cucù alla Merkel, in sé sono innocenti, sono però infantili e le tolgono prestigio. Innescano polemiche e frenano l’attività di governo. Il ministro dell’Interno, Maroni, è costretto ad affannarsi per verificare con la questura di Milano che tutto sia stato regolare nel rilascio di Ruby. Altri ministri trascurano il lavoro per giustificarla sui giornali. Tutto tempo perso a scapito del Paese. Avrà notato che nessuno - né da noi, né all’estero - la critica per la sua politica. Ma solo per la goliardia. A lei piacerà, ma non può fare come vuole.

Ha stipulato un patto pubblico, se ne ricordi. Se no, è uno sprovveduto verso se stesso. Perché, se insiste, lei cancella il buono che fa e si gioca il posto nella storia di questi vent’anni. Le chiedo: vale la candela? Tanto le dovevo.

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