Politica

Intellettuali Gli apripista dei disastri politici

Nella storia del nostro Paese minoranze intellettuali attive hanno sempre fatto da apripista ai disastri politici. Avvenne con il fascismo e, dopo la Seconda guerra mondiale, con l’utopia comunista predicata in ogni angolo del Paese fino a quando la cosa non sfuggì di mano ai circoli culturali e universitari generando il brigatismo rosso. La caduta del Muro di Berlino fece poi dileguare quelle larghe minoranze intellettuali che da decenni erano organiche al vecchio Pci di Togliatti e Berlinguer e che nel momento del «redde rationem» culturale prima ancora che politico si nascosero nelle acque stagnanti dell’oblio. Sino a quando non riemersero più pimpanti che mai nel ’92-93 spiegando a tutti che i partiti erano solo covi del malaffare e che, finita quella comunista, tutte le identità politiche, quelle che governano ancora oggi l’Europa, erano solo «fuffa» ideologica sbandierata per ingannare il popolo bue. Era il leaderismo la nuova frontiera. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Di queste minoranze attive hanno sempre fatto parte uomini e donne della sinistra, anche di quella estrema, ma anche i nuovi fondamentalisti del liberalismo ad ogni costo che perseguivano l’altra utopia, quella di un partito liberale di massa che in Europa solo da qualche anno si è affacciato in Inghilterra e non esiste neanche nella patria «liberale» del lobbismo economico e finanziario, e cioè gli Stati Uniti d’America. D’altro canto alcuni nuovi fondamentalisti liberali hanno prodotto la liberistica deregolamentazione dei mercati con tutto quello che ne è seguito in termini di grandi ricchezze e immense povertà e forse ancora oggi plaudono ai 46 milioni di americani privi di assistenza sanitaria.
Con questa ultrasintetica carrellata è facile capire perché un professore liberale del peso di Angelo Panebianco faccia un editoriale sul Corriere della Sera che nemmeno il più acceso leghista avrebbe mai pensato di scrivere. Parlando del ritardo del Mezzogiorno Panebianco inizia a tirare in ballo i notabili del Sud dimenticando che oggi non esistono più, mentre erano un corpo visibile e di peso nello Stato liberale dei Giolitti, dei Nitti, dei Vittorio Emanuele Orlando e dei Croce, le cui liti prepararono l’avvento del fascismo. Ma Panebianco va oltre e teorizza che un partito come la Lega può non avere, anzi non le è congeniale avere una visione nazionale dei problemi vista «la sua ragione sociale», e cioè il radicamento solo nel territorio di un terzo d’Italia. Se la logica ha un senso, dunque, secondo Panebianco il destino e il futuro del Nord può essere perseguito a prescindere da quello del Sud e forse finanche da quello del centro. Se si vuole evitare che la domanda nordista esploda, continua Panebianco, allora bisogna immaginare due modelli istituzionali diversi, il federalismo al Nord e il centralismo al Sud. Insomma, un papocchio di stampo secessionista. A prescindere dal fatto che il federalismo fiscale approvato non è un federalismo istituzionale (consultare l’enciclopedia Treccani per rendersene conto) noi siamo convinti, come Panebianco, che il problema meridionale passa innanzitutto per una diversa assunzione di responsabilità della classe dirigente del Mezzogiorno che, non essendo più formata da notabili, è figlia degli attuali partiti nazionali, tutti, nessuno escluso. Detto questo, però, è poco più che una barzelletta pensare che il destino di qualunque regione, e in particolare di quelle più arretrate, possa essere sganciato da politiche nazionali adeguate, capaci di recuperare nel caso specifico quello scarto di produttività del Sud legato innanzitutto a gap infrastrutturale e di sicurezza. E queste politiche non possono che essere poste sulle spalle di tutti i partiti, anche di quelli presenti solo in alcune regioni come la Lega Nord, in particolare quando hanno responsabilità di governo. Il ragionamento di Panebianco rischia di essere davvero un invito a fare quel Partito del Sud che giustamente si contesta, affidandogli la gestione del destino delle regioni meridionali. In quel momento due partiti regionalizzati (Lega Nord e Lega Sud) e privi secondo il pensiero liberale di Panebianco di visioni nazionali, metterebbero sempre più il governo reale del Paese nelle mani dell’establishment, da quello economico a quello finanziario, da quello dell’informazione a quello degli altri poteri costituiti. Insomma, una democrazia elitaria che fu già il disegno «liberale» di Tangentopoli. Può darsi invece che l’editoriale di Panebianco sia solo una provocazione per chiudere con una grande risata il dibattito estivo sugli inni nazionali, sulle bandiere regionali e sui dialetti insegnati nelle scuole.

Ed allora va bene così.

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