Roma - La legge sulle intercettazioni? «Non è la migliore legge per l’interesse nazionale, ma forse per l’interesse personale di qualcuno». A Palermo, Gianfranco Fini attacca l’ex alleato Silvio Berlusconi sparando a zero sulla proposta di legge che a metà settimana arriverà nell’Aula di Montecitorio. Una posizione che di certo stride, e non poco, con le dichiarazioni sull’argomento fatte in passato dal presidente della Camera. Mai, almeno fino a qualche tempo fa, troppo indulgente col «grande orecchio» giudiziario. Soprattutto quando le intercettazioni «colpivano» ambienti vicini, o cari, al leader di Fli.
A fine luglio del 2008, per esempio, il capo dello Stato Giorgio Napolitano entra nel dibattito sul ddl intercettazioni con un «no al voyeurismo», e trova subito un’eco entusiasta nel primo inquilino di Montecitorio: «Era ora che venissero dette cose del genere». O meglio, era ora che cose del genere venissero dette da altri, perché Fini, già da tempo, non lesinava critiche e frecciate al veleno contro le indagini fatte spiando le conversazioni telefoniche.
Nel mirino dell’allora erede di Almirante era finito pure Woodcock, quando il pm anglopartenopeo era ancora in servizio a Potenza. L’inchiesta «incriminata» era Vallettopoli, che coinvolse l’ex portavoce di Fini alla Farnesina, Salvo Sottile. Difeso a spada tratta dall’ex ministro degli Esteri, ospite di Vespa a «Porta a porta», nel giugno 2006, e agguerritissimo. «Sono indignato», ringhiava Fini, criticando la «fantasia investigativa» di Woodcock e soprattutto attaccando «questo linciaggio mediatico che deriva dalle intercettazioni e che colpisce persone del tutto estranee e che non hanno alcun nesso con le vicende in corso». Un fenomeno, concludeva Fini, che «deve far scattare un grido sdegnato di allarme».
Sempre negli altri, perché lui quanto a sdegno e grida non si tirava indietro. Appena il giorno dopo, eccolo ancora stigmatizzare l’abuso «disdicevole e immorale» delle intercettazioni telefoniche «sbattute in prima pagina». Il fenomeno per il Fini del 2006 era «patologico», «sfuggito di mano alle autorità preposte», ed era auspicabile un intervento del garante della Privacy. La furia quasi censoria di Gianfry, spiegava lui stesso, era giustificata anche dall’interesse personale, pardon, da «evidenti ragioni di tipo familiare»: anche l’allora signora Fini, Daniela Di Sotto, era finita intercettata. Un dettaglio che il leader di An commentò così: «Non penso che essere mia moglie significhi meritare gogne mediatiche». All’epoca, dunque, per Fini evitare la propalazione di intercettazioni di persone «estranee alle indagini» era una «questione che riguarda la civiltà di un Paese». Insomma, spiare le altrui telefonate restava per Fini uno «strumento di indagine fondamentale», ma «il vero problema è che ci sono troppi abusi».
Un anno dopo, nell’estate 2007, Fini non aveva ancora cambiato idea. Tanto da punzecchiare Massimo D’Alema, irritato per il «facci sognare» rivolto a Consorte e finito sui giornali. «Indignarsi a intermittenza è sbagliato - lo bacchetta Fini - quando D’Alema parla di magistrati distratti, che vanno puniti, dimentica che questo andava detto anche nei confronti di altri magistrati che non sono stati mai puniti». Finita? Macché. Un altro giro di stagioni, e rieccoci a luglio del 2008. «In Europa il nostro Paese - dichiara Fini alla presentazione della relazione del garante della privacy, Pizzetti - è quello dove il ricorso alle intercettazioni ha numeri così elevati da assumere carattere di anormalità», perché evidentemente «per catturare grandi prede fa più comodo utilizzare reti a maglie strette invece che larghe». In modo, continuava il Fini pregiustizialista, da rendere «difficile garantire riservatezza e dignità della persona».
Quella che adesso per Fini è una legge ad personam, all’epoca appariva allo stesso presidente della Camera un provvedimento necessario.
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