Politica

Cinquanta giorni di agonia

Bersani si è illuso di poter formare un governo. Nel frattempo la crisi non demorde e le aziende chiudono

Cinquanta giorni di agonia

Bersani, l'illuso. Bersani, il testardo. Bersani, il perditempo. L'ultima parabola del segretario democratico è intrisa di questi aggettivi. A cui potrebbero aggiungersi anche quelli di irriducibile e indeciso. Perché dal responso delle urne a oggi sono passati cinquanta giorni. Di inerzia politica. E il Paese è immerso in uno stagno istituzionale che il leader del Pd ha contribuito a creare con i suoi ripetuti niet al Pdl e al ritorno al voto e con la sua ostinazione nel corteggiare Beppe Grillo. I giorni passano, la crisi stenta a diminuire, ma non ditelo al leader del Pd, ché di tempo ne vorrebbe una riserva quasi illimitata.

"Siamo a un incrocio e questo è un ulteriore elemento di difficoltà, ma è indecente che in questa fase si dica che la politica deve fare presto”, ha chiosato Bersani il 13 aprile scorso. Un pensiero antitetico a quello di Giorgio Squinzi, secondo cui in 50 giorni è stato letteralmente buttato un punto di Pil.

Fosse stato per il leader democratico, probabilmente avrebbe continuato a oltranza a inseguire i voti del Movimento 5 Stelle perseguendo la chimera del governo. Mai sogno fu più ardito e più agognato. “L'ultima cosa che Bersani ha detto prima delle elezioni è stata: “O vinciamo noi o vincono loro. Non ci azzecca mai”, fu la battuta dissacrante di Maurizio Crozza a commento del risultato elettorale.

L'ultima parabola del figlio del benzinaio di Bettola che sognava di smacchiare il giaguaro inizia proprio da lì. “È chiaro che chi non riesce a garantire governabilità non può dire di aver vinto. Non abbiamo vinto anche se siamo arrivati primi e questa è la nostra delusione”, ha dovuto ammettere amaramente il 26 febbraio scorso. Bersani, l'illuso, fu costretto a fare i conti con la realtà e con un paese spaccato in tre. Ma su chi dovesse essere l'interlocutore non ha avuto dubbi: il Movimento 5 Stelle.

Bersani, il testardo, annunciò “un programma essenziale da presentare al Parlamento per un riforma delle istituzioni, della politica, a partire dai costi e dalla moralità”. Programma che non presenterà mai, come la storia si incaricherà di raccontare. Ma questo Bersani lo scoprirà solo dopo aver sbattuto la testa. E dopo aver provato in tutti i modi a corteggiare Grillo. Già il giorno dopo le elezioni si rivolgeva alla sua pletora di parlamentari in questi termini: “Fin qui hanno detto tutti a casa, ora ci sono anche loro, o vanno a casa o dicono cosa vogliono fare per il paese”. E ancora: “I governi funzionano tema per tema ma anche con la fiducia”. Fiducia che il M5S, o meglio Grillo, non ha mai pensato di accordargli.

Eppure, Bersani, il testardo, ha tentato e ritentato. Da un lato chiudeva a ogni ipotesi di governissimo col Pdl e dall'altro lanciava segnali al M5S. Puntualmente da Grillo arrivava un messaggio caustico: “Bersani lo smacchiatore fallito ha l'arroganza di chiedere il nostro sostegno”; “È un morto che parla”; “È uno stalker politico”. E Bersani incassava. “Quel che Grillo ha da dirmi, insulti compresi, lo voglio sentire in Parlamento”, è stata la più surreale risposta del leader Pd, visto che l'ex comico genovese non siede in Transatlantico.

Bersani, l'irriducibile, non si è dato per vinto e ha tentato di incalzare Grillo, di metterlo spalle al muro con il progetto di un governo di scopo, puntando sui alcuni punti che – almeno sulla carta – il M5S avrebbe firmato. E in effetti sono nate diatribe interne ai grillini, alla fine però insabbiate dalla chiarificazione finale di Grillo: nessun accordo col Pd. Bersani faceva finta di non sentire e vedere, anche perché “ho le spalle abbastanza solide per sopportare le battute e gli insulti”, ha detto lui il 2 marzo scorso. L'unica posizione chiara era il no assoluto al governissimo col Pdl. Dal 26 febbraio non si conta invece un giorno in cui il leader Pd non abbia provato a convincere Grillo. Lo ha invitato a non scappare dalle sue responsabilità, ma è arrivato a ridursi quasi a zimbello del M5S. Il 4 marzo, incontrando i parlamentari grillini, l'ex comico genovese li ha accolti con una battuta: “Ora diamo la fiducia a Bersani”. E chissà che Bersani non ci abbia creduto.

Poi è arrivato il tempo della presentazione degli otto punti del programma e il segretario democratico ha corretto un po' il tiro, spiegando di aver in testa “un governo largamente rinnovato, con la presenza di giovani, donne e presenze esterne dai partiti, assolutamente competenti”. Era il momento di fare i conti con i numeri in Parlamento. E a dimostrazione del fatto che i voti sono come il maiale (di cui non si butta mai niente), il 6 marzo Bersani è giunto a dichiarare che “il risultato di Monti non appare decisivo per la governabilità ma la proposta del Pd è rivolta anche a Scelta Civica”. Nello stesso giorno, Bersani è tornato a denigrare un accordo col Pdl e a puntare all'obiettivo primario: corteggiare i grillini, usando anche i loro metodi. “Il M5S ci dica cosa vuol fare”, ha affermato il segretario, annunciando la presentazione in rete – con annessa discussione- del programma. E a chi gli rimproverava l'inseguimento nei confronti del portavoce pentastellato, Bersani, adirato, rispondeva in complesso politichese: “Qui non si sta corteggiando Grillo, ma si sta interpretando quel che si muove nel profondo per bucare il muro di autoreferenzialità del sistema che comincia ad essere in gioco”.

È stata poi la volta dell'approvazione (con un solo astenuto) della sua linea da parte della direzione Pd. Ma sono arrivati anche i segnali precisi dal presidente della Repubblica che ha parlato di “nebbia” per descrivere lo stallo nella formazione del governo. Bersani, l'irriducibile, ha continuato però a spronare Grillo: “Bisogna dare risposte serie e non incappucciate davanti al Paese, dimmi cosa vuoi fare”. Bersani, il testardo, andava avanti nonostante persino suo fratello Mauro nutrisse dubbi sulla riuscita del suo progetto: “È molto dura, io penso che lui stia dando più che altro una testimonianza”, chiosava l'8 marzo scorso.

Niente. Bersani tirava dritto. Il Paese nel frattempo andava a rotoli, ma lui di tornare a votare a giugno non ne voleva sentir parlare. Così come ha sempre continuato a osteggiare il dialogo col Pdl e a corteggiare il M5S. Bersani, il testardo, ci ha sempre provato. Soprattutto una volta ricevuto l'incarico dal Colle. “Sarò determinato”, ha assicurato il 22 marzo scorso, aggiungendo di prendersi il tempo necessario perché “è una situazione difficile”.

Bersani, il confuso, è arrivato a mostrare piccoli segnali di apertura anche al Pdl, specie sulle riforme istituzionali, paventando la strada di un “doppio registro”: da un lato un programma di riforme di governo dall'altro un confronto sui temi istituzionali. Ci credeva, Bersani. E si è paragonato anche a Tom Cruise: “Missione impossibile? Non c'è niente di impossibile”. Serve la volontà altrui però. Specie quando non si hanno i numeri. E pensare che il 27 marzo Bersani era arrivato a dichiarare che per fare un governo bastano “48 ore, non servono mesi”. Di tempo però, almeno per tentare l'impresa, il leader Pd se n'è preso parecchio. E non si è fatto mancare nulla e nessuno alle consultazioni. Ha incontrato Saviano, Don Ciotti, il presidente del Censis De Rita, Rete Imprese Italia, WWF, Fai, Forum delle Associazioni giovanili e del Consiglio nazionale degli studenti, il Consiglio italiano del Movimento europeo, il Movimento federalista europeo, la Gioventù federalista europea, Confagricoltura, Cia, Copagri, Confcooperative, Coldiretti, Confindustria, l'Alleanza delle cooperative italiane, Confapi, Confprofessioni, Abi e Ania, oltre a sindacati e partiti.

Alla fine, si è dovuto rassegnare: “Esito non risolutivo”. Ma si è subito affrettato a precisare di non aver rinunciato all'incarico. Lui era sempre lì. Anche quando Napolitano lo ha di fatto commissariato affidandosi ai dieci saggi. “Il mio pre-incarico è stato assorbito, ma non vado al mare. Io ci sono, non intendo essere un ostacolo, ma ci sono”. Alla fine però, Bersani si è rivelato un ostacolo, almeno per il Paese. Fermo da più di un mese in un stallo politico che il leader del Pd ha contribuito a formare.

Alla faccia della responsabilità nazionale.

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