Ambrosoli chi, quello del miele? È brutale e anche un po' squallida, ma è esattamente la battuta che girava in Lombardia già molto prima del penoso epilogo, di questa ennesima musata contro percentuali crudeli. Bastava uscire dal ristretto perimetro della Milano snob, dall'ombelico della sinistra pensosa e narcisa, tra corso Magenta e Brera, per sentirla e in qualche modo cercare di comprenderla. Risuonava nelle trattorie delle valli orobiche, nelle fonderie in crisi di Lumezzane, nei cantieri edili chiusi per fallimento, negli allevamenti del Cremonese e del Mantovano, in altre parole là dove Maroni significava qualcosa e dove il figlio dell'eroe civile significava mistero. Ma il problema è sempre lo stesso, eterno e insuperabile: il pensatoio del centrosinistra è troppo concentrato su se stesso, dentro i salotti che sanno d'acqua di colonia, per scomodarsi - abbassarsi - ad aprire le finestre e prestare orecchio. Dannazione: si votasse solo per le vie del centro, sarebbe sempre una passeggiata. Peccato che le urne siano molto diverse dai consigli di amministrazione: i voti si contano, non si pesano. Il voto del piastrellista è esattamente uguale al voto del regista alternativo e della giornalista accigliata. Magari è una regola un po' repellente, in certi circoli, ma si chiama pur sempre democrazia.
Chiuso a festeggiare la sconfitta dentro il Teatro Litta, neanche a dirlo in corso Magenta, prestigioso epicentro della Milano più ricca (alle volte, i simboli), lo schieramento Ambrosoli prova a pensare ancora. Dice, dopo aver molto riflettuto, Stefano Boeri, assessore alla Cultura della giunta Pisapia: «Il modello Pisapia non riesce a raccontarsi appena usciamo dai confini della città. Dobbiamo interrogarci sul perché a pochi chilometri di distanza non facciamo presa. Forse siamo incapaci di parlare con famiglie, uomini, donne abituati ad avere una visione pragmatica della vita». L'analisi appare onestissima, con un solo difetto: andrebbe abolito il forse.
Rieccoci così nella regione più evoluta e più importante d'Italia a raccontare la solita storia, con il solito finale: il candidato che piace alla gente che piace, selezionato dall'élite culturale nei laboratori tra via Solferino e Mediobanca, viene buttato nel Po dalla popolazione lombarda. Tutti barbari e trogloditi? È quasi sempre questa la spiegazione che si danno in quella certa Milano. Una spiegazione inespressa e inconfessabile, perché non si addice al sincero democratico parlare male del popolo, ma è molto radicata nell'intimo. In Lombardia non si passa perché i lombardi sono gretti, palancai, ignoranti e scandalosamente egoisti. Il che è anche un po' vero, come in qualunque altro posto del mondo. Ma qui serve sottolinearlo per spiegare l'insormontabile incomunicabilità tra il bel mondo che pensa e lo sporco mondo che lavora. In sostanza: dove vincono è il trionfo della società civile, dove perdono è il trionfo della società incivile.
Il fatto è che nel frattempo, mentre loro se la suonano e se la cantano, nelle estreme contrade di Lombardia circola già una nuova battuta, seguito e coda di Ambrosoli chi, quello del miele? Chiedono sarcastici gli zucconi padani (parentesi, come farà gente tanto brutta a tenere in piedi la prima regione d'Italia): cos'altro deve inventarsi il centrodestra, oltre a crivellare la Lega e la giunta Formigoni di scandali, per far vincere una volta il centrosinistra?
Non è una domanda tanto stupida. La Milano intellettuale potrebbe porsi proprio questa domanda e darsi qualche risposta, se solo riuscisse ad alzare la testa da corso Magenta e a guardare un po' più in là.
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