Meglio un cattivo processo che un bel funerale

Era il maggio 2003 quando Gio­vanni Petrali reagì uccidendo un bandito. Ecco la lettera del figlio

Era il maggio 2003 quando Gio­vanni Petrali reagì uccidendo un bandito. Ecco la lettera del figlio inviata al giornale on li­ne «l’Intraprendente» (www.lintraprendente.it) e che pub­blichiamo per gentile conces­sione della testata.

Meglio un cattivo processo che un bel funerale. È quello che io e la mia famiglia, per certi versi egoisticamente, abbiamo pensato durante tutti questi anni. Dieci per la precisione, tanto ci ha messo la giustizia italiana a emettere un verdetto sul caso di mio padre, il tabaccaio di Piazzale Baracca che nel 2003 uccise un malvivente che aveva tentato di rapinarlo.
All'epoca dei fatti avevo 15 anni. Quel maledetto pomeriggio di maggio ero a casa di un mio amico a giocare a qualche videogame. Sua madre entrò nella stanza e mi disse che dovevo rimanere a casa loro a dormire perché i miei genitori avevano fatto tardi sul lavoro. Dovettero solo stare attenti a non sintonizzarsi, neanche per sbaglio, su qualche telegiornale. Sennò avrei scoperto tutto. Ovviamente la mia famiglia passò tutta la notte in questura.
La mattina dopo tornai a casa. C'era qualcosa di strano nell'aria. Troppa gente sotto casa e qualcuno addirittura sul pianerottolo. Avrei scoperto solo dopo che erano tutti giornalisti e che io non gli interessavo, nonostante fossi il figlio del tabaccaio, perché ero ancora minorenne e quindi non potevano intervistarmi. Entrai e vidi tutta la mia famiglia attorno al tavolo, tranne mio padre», (nella foto). «Nico, dobbiamo dirti una cosa - esordì mio fratello maggiore -, ma non spaventarti. Stiamo tutti bene fortunatamente. Ieri c'è stata una rapina al bar e c'è stata anche una sparatoria. Il papà sta bene ma adesso è in ospedale perché lo hanno picchiato e ha preso qualche botta alla testa». In quel momento ebbi molta paura. Pensavo mi stessero mentendo per non dirmi subito la verità. «Dov'è papà?», fu l'unica cosa che riuscii a dire. «È in ospedale, sta bene», ribadirono. «Non facciamo scherzi - urlai - mi state dicendo la verità vero?». «Sì, stai tranquillo». «E allora portatemi in ospedale, subito!».
Il resto della storia la lessi anch'io nei giorni seguenti sui giornali. Mio padre era stato malmenato, minacciato di morte, i due rapinatori avevano puntato la pistola prima su di lui e poi su mia madre. Nel bar c'era la cassaforte a tempo e quindi non poteva essere aperta in modo volontario. «Sparagli - urlava al suo complice il ladro non armato per spaventare mio padre - sparagli!». Mio papà mi ha confessato molte volte che in quel momento pensava fosse la fine. «Un'intera vita a lavorare per morire qui, come un cane», mi ha ripetuto spesso.
Per fortuna non è andata così. Mio papà in un momento di disattenzione dei rapinatori ha preso la pistola e ha fatto fuoco. Uno dei due è morto poco dopo. Nel caos di quei momenti, tra ambulanze, polizia, curiosi che si accalcavano intorno al locale, mio padre chiedeva di suo figlio più piccolo. Era preoccupato di come avrei avuto la notizia. «Il fiulin ( bambino in dialetto milanese) - diceva a mia madre con un'espressione allucinata - il fiulin!».
A tanti anni di distanza i postumi di quella tragica esperienza sono ancora forti. Mio padre ogni tanto ha ancora gli incubi. L'ansia torna spesso a fare visita a mia madre e a mia sorella. Nel tempo abbiamo ricevuto tanta solidarietà e dovuto mandare giù qualche boccone amaro. Un processo lungo, a tratti paradossale, in cui mio padre era accusato di omicidio volontario.

Qualche provocatore che nei giorni seguenti entrava al bar e chiedeva il punto preciso dove era morto il rapinatore per mettere dei fiori o chi sosteneva che avrebbe dovuto sparare alla gambe, come se si ragionasse razionalmente in quei momenti. Alla fine l'assoluzione completa non è arrivata, ma non importa. Sono ancora convinto che un brutto processo sia meglio di un buon funerale.

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