Merkel fino a quando? Per anni (almeno dal 2008) la cancelliera tedesca ha dominato incontrastata la scena della politica economica europea ed è passata la linea calvinista tedesca de «lo spread è alto, è colpa tua», dei compiti a casa e delle ricette «sangue, sudore e lacrime» per uscire dalla crisi.
Dopo 5 anni, però, i risultati dimostrano che l'impostazione è stata del tutto sbagliata, e finalmente si comincia a chiedere anche alla Germania di fare la sua parte per il bene dell'economia dell'area euro (vedremo come).
Allo stesso modo, un cambio di strategia di politica economica nell'Europa a trazione tedesca è, di fatto, la richiesta che emerge dalla decisione dello scorso giovedì della Bce di ridurre il costo del denaro. Nonché la necessaria risposta alle istanze populiste che si fanno largo ormai in tutti i Paesi dell'Unione, minando il risultato delle elezioni europee della prossima primavera 2014.
Un esempio su tutti: la Francia. Spesa pubblica in aumento, pressione fiscale alle stelle (più alta che in Italia, e ce ne vuole!), disoccupazione ai massimi, deficit ben oltre la soglia del 3% (-4,1% nel 2013), ma rischio sovrano limitato (solo venerdì c'è stato un lieve, ma tardivo, declassamento da parte di Standard & Poor's) e spread basso.
Perché? Perché il debito pubblico è contenuto: 93,5%. Ma si può basare tutto su un unico elemento? La risposta razionale sarebbe no. Eppure in Europa negli anni della crisi si è guardato solo a quello: al debito. Ci sarà un motivo se, al contrario, mentre l'area euro chiuderà il 2013 con un Pil medio negativo (-0,4%), gli Stati Uniti faranno registrare un +1,6% (pur con un debito del 104,7%) e il Giappone un +2,1% (pur con un debito del 243,4%)?
La Bce è intervenuta tagliando il tasso unico di riferimento (leggi: il costo del denaro) di un quarto di punto, a quota 0,25%: il minimo storico. La decisione è stata accolta con iniziale entusiasmo dai mercati, ma l'effetto è durato solo un'ora e le Borse europee hanno chiuso tutte in negativo (Milano -2%), con la sola eccezione di Francoforte.
La decisione della Bce è stata certamente una buona notizia, ma non del tutto. Buona perché ha confermato la volontà da parte della Bce di sostenere l'economia dell'Eurozona. Non del tutto una buona notizia perché ha lasciato intendere che la Bce prevede ancora periodi di non crescita nell'area euro (smentendo, di fatto, i supporter dell'austerità, da Olli Rehn al ministro italiano Saccomanni) e teme la deflazione (riduzione dei prezzi causata dalla riduzione dei salari e dei consumi). A questi livelli di tassi di interesse, inoltre, gli operatori sono disposti a detenere quantità illimitate di denaro rallentando la circolazione della moneta e rendendo, pertanto, neutro l'effetto della riduzione dei tassi di interesse sulla crescita. E la liquidità immessa sul mercato con gli strumenti di politica monetaria non si trasforma in investimenti da parte delle imprese né in consumi da parte delle famiglie.
Dalle colonne del New York Times, il premio Nobel Paul Krugman rincara la dose: la Germania non danneggia solo l'Eurozona, ma la crescita globale. E il miglioramento della sua economia è avvenuto a scapito del resto del mondo, Stati Uniti inclusi, perché punta troppo sull'export e non sulla domanda interna, realizzando surplus della bilancia dei pagamenti superiori a qualsiasi altro Stato europeo, senza alcun meccanismo di redistribuzione grazie a un euro tedesco sottovalutato rispetto ai fondamentali dell'economia nazionale, che consente alla Germania di «drogare» la propria competitività sul mercato esterno.
Un fatto (corredato di numeri), emblematico: tra le occhiute misure previste dai noti six pack e fiscal compact c'è una soglia massima consentita (fissata al 6%) alla variazione media degli ultimi 5 anni del valore delle quote di mercato delle esportazioni degli Stati membri. Nel 2012 la Germania ha registrato, guarda caso, una variazione pari proprio a 5,9%, cioè quel decimale in meno che non fa scattare alcun automatismo redistributivo. Questo significa, come sostengono, tra gli altri, gli Stati Uniti, che, con tale surplus della bilancia dei pagamenti (per il 2013, è previsto un surplus del 7%) la Germania ha un vantaggio competitivo sulla crescita.
L'euro tedesco, contro ogni volontà e sogno, ha distrutto l'Europa. È questa la malattia mortale che ci affligge. La soluzione è una sola: i Paesi che registrano un surplus nella bilancia dei pagamenti hanno il dovere economico e morale di aumentare la loro domanda interna, trainando le economie degli altri. Si riequilibrano così anche i conti pubblici e tornano ai livelli fisiologici i tassi di interesse sui debiti sovrani. Quindi i tassi di crescita dei Paesi sotto attacco speculativo. Risolvendo i problemi tanto di questi ultimi quanto dell'intera Eurozona.
La legge di Stabilità si inserisce nella sequenza viziosa appena descritta. L'impianto minimalista adottato dimostra il timore reverenziale del nostro governo nei confronti della burocrazia di Bruxelles e dell'Europa tedesca. Per invertire il segno va cambiata profondamente, in senso espansivo: con tagli di spesa, riduzione della pressione fiscale e aumento della produttività del lavoro e della competitività delle imprese.
Il populismo che il presidente del Consiglio vede crescere in Italia non è rancore nei confronti dell'Europa, bensì rancore nei confronti dell'Europa tedesca, egoista e opportunista.
Come avevamo previsto, le politiche adottate fino ad oggi nell'area euro non solo hanno danneggiato la crescita europea, ma hanno posto l'intero continente in conflitto con Usa e Cina, impedendo un coordinamento internazionale pro-crescita.
Non è, allora, populista chi si oppone all'egemonia e all'egoismo della Germania e denuncia gli effetti negativi della politica economica di un'Europa passiva ai diktat della cancelliera tedesca, ma coloro che portano l'Europa a sbattere contro un muro, con politiche errate e nazionaliste.
Fino a quando si confonde l'attacco alle scelte europee con l'attacco all'Europa in quanto tale, si alimenta l'anti-europeismo.Insomma, abbiamo tutti i motivi per affermare che Angela Merkel fa male, all'Europa e all'Italia. Bisogna dirle di smettere. Chi la chiama?
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