Ecco perché Fiat è costretta a traslocare

Burocrazia e sindacati: in Italia ci sono troppi freni, è logico che Marchionne scelga gli Stati Uniti

Ecco perché Fiat è costretta a traslocare

La Fiat non ha mai avuto tanto successo come da quando se ne è praticamente andata via dall'Italia, paese inospitale per qualsiasi impresa produttiva. Sergio Marchionne, amministratore delegato della fabbrica (ex) torinese, è un genio: ha capito che dalle nostre parti non c'era trippa per gatti e si è trasferito, armi e bagagli, negli Usa dove le attività industriali non sono viste, come invece avviene qui, quali espressioni del demonio. Il capitalismo non è il paradiso, ma nemmeno l'inferno: semplicemente è indispensabile per far lavorare la gente evitandole di morire di fame.
Un concetto elementare che, nel Belpaese, confligge con una mentalità ancora diffusa nonostante il fallimento conclamato del collettivismo. Le automobili sono oggetti qualsiasi: per conquistare il mercato devono essere robuste, avere un buon prezzo e parecchi punti vendita, infine essere conosciute dalla clientela. Il resto vien da sé. In Italia non esistono da anni le condizioni ambientali per consentire a un'azienda di competere con la concorrenza internazionale: le tasse e il lavoro sono eccessivamente onerosi, le norme che disciplinano i rapporti tra proprietà e personale sono rigide e foriere di contenziosi scoraggianti. Ovvio che gli imprenditori emigrino o, come si dice, delocalizzino.
Senza un adeguato profitto, infatti, gli stabilimenti chiudono. Lo capisce chiunque, meno i nostri governi. Quelli di sinistra, in particolare, predicano che l'obiettivo principale è la sconfitta della disoccupazione. Ma non sanno sconfiggerla se non a parole oppure incrementando i lavori socialmente utili (anzi, inutili) e assumendo forestali in Calabria, notoriamente priva di foreste, eccettuate quelle dell'Aspromonte di cui non importa niente ad alcuno, se si escludono i sequestratori di persone.
Marchionne, constatato che la Fiat in patria non avrebbe combinato nulla, data l'ostilità dei sindacati, dello Stato e della politica, ha traslocato in America trovando un'accoglienza trionfale. Il suo interlocutore non è più Maurizio Landini, capo della Fiom, ma il presidente Barack Obama, che gli ha messo a disposizione finanziamenti bastevoli a rilanciare nientemeno che la Chrysler. La quale ora - rimessa a nuovo - è diventata patrimonio della famiglia Agnelli-Elkann. Sforna vetture a tutto spiano. Il marchio è stato lustrato a dovere e gli affari vanno benone.
In Italia, Marchionne era stato insultato, travolto dalle grane (anche di tipo giudiziario) e giudicato con disprezzo nemico del popolo. A forza di essere ingiuriato, il grande manager si è risolto a emigrare negli Stati Uniti dove gli hanno fatto ponti d'oro, e qui ha posto le basi di una clamorosa affermazione. Oggi la Fiat e la Chrysler sono la stessa cosa: un gruppo industriale potente che, a dispetto della crisi dell'auto, va consolidandosi con fatturati da capogiro.
Ciò sarebbe accaduto in Italia se i sindacati e i partiti loro complici non si fossero battuti incoscientemente per rendere la vita difficile alla casa di Torino, costringendola a gettare la spugna. I ricavi della Fiat galoppano, mentre l'industria nazionale svapora o cede quote di mercato agli stranieri. Potrebbe essere l'occasione per prendere atto degli errori commessi e tentare di rimediarvi.

Ma non facciamoci illusioni: la lezione non servirà a correggere il nostro sistema sbagliato, antiquato e inefficiente. Continueremo a dare retta a Susanna Camusso e compagnia perdente. Marchionne se la ride, e ci manda tanti auguri dalla tolda della Chrysler in pieno splendore. Noi rispondiamo: cari saluti dalla Cassa integrazione.

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