Alfano ministro latitante: Viminale in mano ai prefetti

Angelino è troppo impegnato a fare il leader Ncd e delega tutto a capo di gabinetto e funzionari. E il malumore serpeggia tra i poliziotti: ci manca un interlocutore

Alfano ministro latitante: Viminale in mano ai prefetti

Il ministero è in mano alla lobby dei prefetti», ti sussurrano nei corridoi del Viminale. «Il ministro? Lo vediamo poco...». È in quei vuoti di comando, con Alfano troppo preso dal suo ruolo di leader di Ncd, che il timone passa in altre mani: dal ministro assente ai «ministri ombra» del Viminale, i mandarini che al ministero dell'Interno vestono una divisa precisa, quella dei prefetti. Chi regge il Viminale è Luciana Morlese, prefetto, nominata nel 2013 da Alfano capo di gabinetto, un ruolo che al ministero dell'Interno è ancora più centrale che altrove. La Morlese è anche a capo delle politiche del personale civile e responsabile per le risorse strumentali e finanziarie del Viminale, altro ruolo di grande potere. Sotto di sé, dalla vice fino ai dirigenti dei dipartimenti, una interminabile fila di prefetti e viceprefetti. Se la Morlese deve ad Alfano la promozione, il suo rapporto col ministro va letto a ritroso. Dalla vicinanza cioè con Giuseppe Procaccini, ex capo di gabinetto dimessosi in rotta totale con Alfano dopo il caso kazako, il rimpatrio della moglie e della figlia del dissidente Ablyazov avvenuti con un blitz all'insaputa del ministro. Così almeno spiegò Alfano, scaricando le responsabilità proprio su Procaccini, che poco dopo lascerà l'incarico «nauseato e ingiustamente offeso» dallo scaricabarile. «Alfano sapeva tutto, mi disse che quel caso minacciava la sicurezza nazionale e ordinò che incontrassi l'ambasciatore kazako» spiegherà mesi dopo il capro espiatorio Procaccini, ormai in pensione. Quella vicenda non ha messo in gran luce Alfano agli occhi dei funzionari del Viminale, e della «lobby dei prefetti» che lo guida.
Un ministero molto speciale, attivo 24 ore su 24, strutturato per le emergenze. Una supercar che richiede un pilota adeguato alle prestazioni, una catena di comando basata sulla fiducia, sull'affiatamento. E sulla presenza costante del ministro. Scajola racconta di continue riunioni, dal mattino alle 8 fino a tarda sera. Maroni, che ancora viene salutato con un «buongiorno ministro» quando passa da lì, è riuscito a conquistarsi la fiducia con un lavoro di squadra, sia con i vertici del ministero (lo stesso Procaccini, chiamato per primo dall'ex ministro leghista) che con l'allora capo della polizia Antonio Manganelli (con cui si creò anche una solida amicizia, «abbiamo i maroni e i manganelli, siamo perfetti insieme» scherzavano). Alfano invece deve guidare il Ncd, partito appena nato e alle prese con la sua prima campagna elettorale. Un impegno politico gravoso, dunque, che toglie tempo ed energie al lavoro nel ministero. «Andate a vedere dov'era Alfano mentre la Shalabayeva veniva rispedita in Kazakhstan» si sfogava un funzionario di polizia in quei giorni. E dov'era Alfano? Impegnato in un vertice con Letta, nelle vesti di vicepremier. E poco dopo in una riunione del Pdl, in qualità di suo segretario. E qualche ora dopo con l'ambasciatore colombiano, stavolta come ministro. Ma nel posto sbagliato.
Non è solo la presenza fisica. Chi conosce bene i meccanismi del Viminale spiega che il ministro, in quel particolare ruolo, deve tenere un profilo molto riservato, istituzionale. Difficilmente compatibile con la leadership di un movimento politico, che porta, al contrario, a esporsi. Altrimenti, come nella gestione degli sbarchi, o nei cortei che si trasformano in raid urbani (come l'ultimo a Roma) la macchina va in panne.

Poi i poliziotti, che lamentano uno scarso dialogo con Alfano, mentre le assunzioni di vincitori di concorso sono bloccate (colpa dei funzionari, ovviamente...), gli stipendi fermi, i tagli in arrivo, e la riforma della legge 121 sulla polizia - rilanciata da Maroni - chiusa in un cassetto da Alfano.

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