Ci risiamo. Il giudice di Amanda e Raffaele come quello del Cavaliere. Alessandro Nencini ha appena finito di leggere davanti alle telecamere di mezzo mondo la sentenza di condanna e già si lascia andare a confidenze e precisazioni con il Corriere della sera. Esattamente come Antonio Esposito. La scorsa estate prima declamò il verdetto che affondava Silvio Berlusconi e poi provò a spiegarlo al Mattino: «Non è che non poteva non sapere, qualcuno ci ha detto che sapeva». Le motivazioni erano ancora tutte da scrivere e le polemiche divamparono feroci, anche perché quella pronuncia chiudeva lo spazio politico del Cavaliere. Niente da fare, siamo punto e da capo: le motivazioni arrivano direttamente in edicola.
Il mondo osserva perplesso le contorsioni del nostro sistema giudiziario, «incomprensibile» pure per Stephanie Kercher, sorella della povera Meredith. E allora il presidente della corte d'assise d'appello di Firenze, invece di far decantare la storia, infila il coltello nella piaga e offre in tempo quasi reale la sua versione: «Ho figli anch'io, è stata una condanna sofferta». E giù a spiegare il capovolgimento rispetto a quanto stabilito dai colleghi di Perugia. Nencini è più accorto di Esposito e dunque dice e non dice, ma qualcosa fa capire: la difesa aveva chiesto di separare le due posizioni, quella di Sollecito e quella di Amanda Knox, ma «motiveremo in maniera approfondita sul punto spiegando perché non abbiamo ritenuto di accogliere questa impostazione». Qualcosa però si può anticipare ed ecco così la fiondata, sia pure all'ingrosso: «In ogni caso Sollecito ha deciso di non farsi mai interrogare nel processo... È un diritto dell'imputato, ma certamente priva il processo di una voce».
E così, fra rimpianti, esitazioni e citazioni familiari, Nencini sembra infilare nella bottiglia un messaggio preciso: la corte avrebbe pure potuto puntare sulla responsabilità piena della sola Amanda e alleggerire la posizione di Raffaele, ma lui non si è presentato all'appuntamento con l'interrogatorio e in questo modo si è condannato da solo. O comunque ha compromesso le proprie chance. Col risultato che i magistrati di Firenze hanno sposato la tesi dei loro colleghi di primo grado, affondata in appello e ora riabilitata da questo verdetto colpevolista. Una girandola che pare una filastrocca amara, difficile perfino da sintetizzare. Forse, sarebbe stato bene centellinare le parole visto che ci si muove fra cristalli fragilissimi. E invece no, Nencini si avventura in uno slalom scivolosissimo fra mezze frasi, vedo-non vedo, allusioni, persino giustificazioni non richieste. Un labirinto in cui si gioca a dadi con la vita degli imputati.
Del resto, in un contesto surreale, lo stesso Corriere pubblica un trafiletto in cui Claudio Pratillo Hellmann, presidente della corte d'assise d'appello di Perugia, ribadisce invece l'innocenza della coppia: «Rimango certo che a carico di quei due ragazzi non ci sia alcun elemento concreto». Che dire? Pare di essere nella cabina con pulsante di Rischiatutto. Nell'ambiente si sostiene che i giudici umbri si siano impiccati da soli alla corda di una perizia assai discutibile. E dunque ora sarebbe stata ristabilita la verità. Ipotesi in una babele di dichiarazioni e controdichiarazioni che si annullano a vicenda e cancellano la sacralità della giustizia. Nencini come Esposito. Fuori tempo in una vicenda che di tempo ne ha già consumato troppo. Il cittadino è frastornato e ascolta atterrito le opposte, autorevoli versioni. Ma sa anche che il valzer andrà avanti. Persino l'Anm giudica «inopportuna» l'intervista di Nencini.
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