Anna, l'ex pm che sogna il Csm azzoppata dal marito inquisito

Costretta a lasciare il Parlamento dopo 25 anni, la Finocchiaro punta alla poltrona prestigiosa, ma la sua foga moralizzatrice è meno credibile dopo i guai del consorte

Peggio di così non poteva andare ad Anna Finocchiaro nell'affannosa ricerca di una poltrona sostitutiva di quella che perderà nel 2013. La piacente senatrice del Pd, da sei anni capogruppo a Palazzo Madama, dovrà infatti lasciare il Parlamento nel quale piantò le tende cinque lustri fa. Vi arrivò trentaduenne facendo strage di cuori con la sua prorompente - ma distante - bellezza all'antica, se ne va cinquantasettenne statuaria e severa com'era venuta, ma più furbastra e rotta ai sotterfugi di Palazzo.
Con sette legislature alle spalle, Anna ha stracciato il limite di tre fissato dallo statuto del partito. Né può sperare in un'eccezione per i suoi meriti, poiché due calibri più grossi e di pari anzianità parlamentare, Walter Veltroni e Max D'Alema, hanno deciso di ritirarsi, rinunciando a trattamenti di favore. Risoluzione che l'ha spiazzata togliendole ogni illusione di rivestire il laticlavio ancora qualche annetto, giusto per toccare la sessantina, spruzzare di grigio i folti capelli e tornare pacificata nella sua Catania profumata di zagare. L'improvvida alzata d'ingegno dei due dioscuri, è stato il primo ostacolo contro cui ha cozzato la sua ferma volontà di sedere comunque su una bella poltrona nei prossimi anni.

Il secondo intoppo è più personale. Sfumata la possibilità di Palazzo Madama, Anna ha pensato di trasmigrare al Csm quale membro eletto dal Parlamento. Si garantirebbe quattro anni di auto blu, un buon appannaggio e il presentat'arm del piantone all'ingresso. Come ex magistrato, ne ha la capacità tecnica; come onorevole di lungo corso, la caratura politica. Per la riuscita del piano, si è affidata a Pier Luigi Bersani, segretario del partito e maestro di trattative sottobanco. È il suo faro da quando, Max D'Alema, l'idolo d'antan, si è sfarinato.

Tutto pareva filare liscio finché, a fine ottobre, la magistratura catanese le ha rinviato a giudizio il marito, Melchiorre Fidelbo, per abuso di ufficio e truffa. Inquietante da parte degli ex colleghi l'incriminazione del congiunto in coincidenza con la candidatura al Csm. Segnale di non gradimento o atto dovuto non rinviabile? Chissà. E ancora: è opportuno per una signora che ha sotto processo l'amato consorte (Fidelbo e Finocchiaro sono coppia affettuosa e affiatata) l'ingresso nell'organo di controllo dei giudici o, invece, la nomina rischia di apparire una pesante interferenza nella causa?

È un brutto pasticcio, senatrice, e non le sarà facile decidere appropriatamente alla luce della sua storia. Ricordo, da fervido ascoltatore delle sue intemerate in tv, quante volte con la sua voce dalle profonde risonanze baritonali ha condannato a spada tratta chiunque sia stato sfiorato dal sospetto. Ferrigna e impietosa, ha giudicato il ministro Bossi, caduto in disgrazia, «incompatibile col ruolo che ricopre»; ha ingiunto a Tremonti di «dimettersi», per un presunto affitto di favore; su Claudio Scajola, che già si era dimesso, ha voluto egualmente infierire rilevando che la situazione «era insostenibile»; per tacere dei reiterati liscio e busso al Cav, tra epiteti («nano della politica») e anatemi («deve farsi da parte, è incompatibile»). Quindi, per tornare al suo dilemma se insistere o desistere dal Csm, dovrà ora mostrarci se la sua implacabilità, finora applicata ad altri, vale anche per sé.

L'imputato Melchiorre è un bravo ginecologo, un ottimo compagno e il primo fan della moglie. Incoraggiò Annuzza a entrare in Parlamento nonostante fosse incinta e ha accudito la prima quanto la seconda bambina mentre lei si faceva strada a Roma. Per un quarto di secolo è rimasto pressoché invisibile finché, un annetto fa, è balzato alle cronache per avere ottenuto - in favore di Solsamb, srl cui è cointeressato - un appalto regionale di 1,7 milioni per informatizzare il presidio sanitario di Giarre. Forse è stato preso di mira a causa della moglie illustre, fatto sta che il giorno dell'inaugurazione dei lavori un tizio inalberò un cartello con la scritta: «Anna Finocchiaro, vergognati». Con un balzo, lei gli fu addosso. «Vergogna di che?», sibilò. La scena fu ripresa, un periodico di Catania pubblicò il video, Finocchiaro minacciò querele e la faccenda divenne pubblica. La Regione mandò ispettori che sentenziarono la violazione delle regole e l'appalto fu revocato. Emerse che, per ottenerlo, Melchiorre avrebbe fatto indebite pressioni e aleggiò il sospetto - maligno e non provato - che la potente consorte ci avesse messo lo zampino. Di qui, il processo e l'antipatica impasse che ora costringe Annuzza a rivedere i programmi futuri.

La senatrice è senza dubbio un'ambiziosa carrierista che cela le mire personali col paravento del femminismo. Non rivendica gli onori per sé - sostiene - ma per affermare il diritto della donna a raggiungere i massimi traguardi che la lobby maschile le preclude. «Il fenomeno - ha sostenuto - si chiama soffitto di cristallo: le donne vedono le cariche più alte, ma un soffitto di cristallo impedisce loro di salire». Finocchiaro parla per esperienza. È stata infatti candidata alle supreme sfere, ma poi lasciata con un palmo di naso da un uomo. Nell'aprile 2006, doveva diventare ministro dell'Interno di Prodi. La spuntò invece Giuliano Amato. Il mese successivo, circolava il suo nome come capo dello Stato, dopo che Prodi aveva bofonchiato: «Ci vuole un segno di novità. Magari una donna». Al Quirinale salì invece Napolitano. Lei, che si era illusa, dichiarò indispettita al Corsera: «Un uomo col mio curriculum l'avrebbero già nominato presidente della Repubblica». Esagerava. All'epoca, il suo curriculum erano cinque legislature da ciompo e un ministero senza portafoglio (Pari opportunità) nel 1996. In realtà, è stata più vittima di se stessa che della maschia prepotenza.

Esemplare la vicenda della candidatura nel 2007 alla segreteria del nascente Pd. Nell'ultimo congresso dei Ds a Firenze, maggio 2007, Finocchiaro fece un divino discorso, interrotto da ventuno applausi. Aveva il partito in pugno e le vele al vento. D'Alema, suo mentore, la benedisse: «Sei tu la mia candidata» alla guida del futuro Pd. Invidiosetta ma profetica, la collega Livia Turco osservò acidula: «D'accordo su una donna. Ma non strumentalizzata dagli uomini». Annuzza fece spallucce e, poiché su Max avrebbe messo la mano sul fuoco, si cullò nell'attesa dell'incoronazione. Era ancora impalata alla promessa, quando in giugno Fassino e D'Alema, in combutta con l'interessato, si accordarono su Veltroni capo del Pd. Finocchiaro seppe del bidone a cose fatte. Non sbatté il pugno sul tavolo, né sul grugno di D'Alema.

Si accucciò all'istante, prona e obbediente, con il tipico riflesso comunista di soggezione al capo. Ecco perché, a furia di inghiottire rospi, è ancora inappagata e tuttora ingorda di pubbliche prebende. A noi pagare il conto delle sue frustrazioni.

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