Assemblea Pd nel caos: su nozze gay e primarie è rissa tra i democratici

Roma«E questi vogliono prendere in mano l'Italia al posto di Monti?», si chiede sconfortato il parlamentare Pd (convinto supporter del Monti bis per il 2013) mentre la sala dell'assemblea nazionale lentamente si svuota.
È finita in bagarre sul matrimonio gay, con votazioni vietate, tessere stracciate e lanciate in presidenza, urla e foto di Rosy Bindi vestita da suora che impazzano sui social network, tra i commenti infuriati dei militanti democrat e degli attivisti omosessuali. «Persino Fini è più avanti della Bindi e dei suoi Dico», grida il pugliese Enrico Fusco dal palco, mentre la platea rumoreggia. Il segretario Pier Luigi Bersani capisce che la «sua» giornata da leader e da candidato premier rischia di finire in vacca nei tg serali. Che la sua ben articolata relazione, in cui ha tenuto insieme la «lealtà» a Monti con la rivendicazione della «identità» del Pd e delle sue idee sul cambiamento possibile, chiudendo con una citazione folk di Woody Guthrie e di This land is your land, rischia di sparire dai giornali del giorno dopo lasciando il posto allo scontro furibondo. E cerca di calmare gli animi mettendo una pezza al pasticciaccio combinato dalla presidente del partito. Prende il microfono e invita alla calma, «il paese non è fatto delle nostre beghe» dice accorato, assicura che il Pd assume un «impegno alla regolamentazione giuridica delle unioni gay» ma invita a non correre troppo avanti, perché «il sistema dei diritti è un meccanismo in evoluzione e può perfino fermarsi se non si tiene conto dei passi». Ma è troppo tardi. Dal podio Ivan Scalfarotto fa notare che a forza di prudenze il Pd è diventato il fanalino di coda di tutto il progressismo mondiale su questi temi: «Dalla Spagna alla Germania, dal Portogallo all'Argentina», per non parlare di «Hollande in Francia e Obama negli Stati Uniti», il matrimonio omosessuale è una bandiera e un obiettivo da perseguire, quando non già un dato acquisito, spesso anche con governi di centrodestra. Non in Italia, però, e non per il Pd, zavorrato di cattolici da tener buoni: Rosy Bindi ha messo il veto sull'ordine del giorno sulle nozze gay, proposto da un nutrito gruppo di dirigenti e parlamentari (Ignazio Marino, Rosa Calipari, Sandro Gozi, Andrea Benedino e molti altri) capitanati da Paola Concia, impedendo che fosse messo ai voti. Ed è stato caos.
Le trattative per evitare uno sbocco cruento andavano avanti da giorni. Nella notte prima dell'assemblea pareva essersi aperto uno spiraglio: la Bindi, che è la madrina del documento sui «diritti» che dovrebbe riassumere la posizione del Pd sulle questioni “etiche”, aveva accettato che venisse messo ai voti, oltre al testo ortodosso, anche un documento più liberal (non solo in materia di gay ma anche di fecondazione, aborto e fine vita) firmato da autorevoli dirigenti come Barbara Pollastrini e Gianni Cuperlo. Al dunque però la presidente del Pd ha «tradito i patti», come denuncia Benedino restituendo la tessera al segretario. Cogliendo a pretesto la firma di un membro della segreteria, Ettore Martinelli, sul documento “rivale”, ha dato in escandescenze al grido di «Così il partito delegittima il mio testo!», ha minacciato fuoco e fiamme e alla fine ha posto l'ultimatum: non si vota nulla tranne il mio testo. Un testo che i contestatori, dal palco, definiscono «vecchio», «arretrato», «vergognoso per un partito progressista», e che raccoglie 39 voti contrari. Con la stessa determinazione, poi, la presidenza fa muro anche contro gli altri ordini del giorno. Paola Concia chiede che quello sul matrimonio gay venga comunque votato, «accetterò qualsiasi verdetto, ma se siamo un partito democratico dobbiamo almeno votare», ma il niet bindiano è ferreo. E mentre la platea esplode, finiscono nel cestino anche gli ordini del giorno sulle primarie e sul limite dei tre mandati parlamentari, presentati da Civati e Gozi. «A che serve questa assemblea se non può votare nulla?», chiede al microfono Salvatore Vassallo.

«Abbiamo già votato la relazione del segretario, che parla delle primarie», è la spiegazione. Bersani assicura che si faranno e che saranno «aperte», ma non fissa date. Matteo Renzi avverte: «Rinviando tutto Bersani pensa di metterci in saccoccia. Ma si sbaglia di brutto perché noi a settembre saremo pronti».

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