di Se un padano, un bergamasco di quelli che da anni cianciano di culture, di autonomie e identità, volesse rispecchiarsi e ritrovarsi dovrebbe salire a Breno, in Valcamonica. E, arrivato lì, entrare nella chiesa di Sant'Antonio Abate dove, sulle pareti del presbiterio, un grande pittore, Girolamo Romanino, ha raccontato la sua bibbia. Gli affreschi sono frammentari ma i personaggi sono vividissimi: piangono, urlano, chiedono. Vediamo le Storie di Daniele: i compagni del profeta, Sadràch, Mesàch e Abdènego, alla corte di Nabucodonosor, sono chiamati a rispondere in tribunale della loro disubbidienza: «È vero, Sadràch, Mesàch e Abdènego, che voi non servite i miei dei e non adorate la statua d'oro che io ho fatto innalzare?». Alla irritata richiesta di Nabucodonosor, i tre amici rispondono: «Re, non abbiamo bisogno di darti nessuna risposta ma sappi che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace con il fuoco acceso, e dalle tue mani».
Colore, espressioni, deformazioni dei volti, rendono questi ragazzi di strada, travestiti da martiri, fratelli e simili a quelli che li guardano. È così anche per i trombettieri che si affannano a convocare i cittadini davanti alla statua d'oro. Dunque, ci sono i buoni e i cattivi: i soldati uccisi dal calore della fornace e i tre ragazzi salvati da un angelo del Signore. Sono le stesse facce di quei personaggi voluti da un prete curioso del popolo di Breno, chiamato ad assistere allo spettacolo nella balaustra sopra la scena, spettatori increduli con le guance rosse e il ghigno trattenuto. Dopo tanti anni, finalmente accade qualcosa e tutti stanno in prima fila. Romanino dipinge un popolo, quel popolo, con nessuna retorica, nessun paludamento, un'umanità trovata sulla strada, con i volti deformati, arrossati, infreddoliti. Occorrerà aspettare due secoli perché si riproducano le stesse condizioni ancora a Breno dove, nella chiesa di San Maurizio, un altro spettacolo, tragico e doloroso, vede quello stesso popolo incredulo e dolente davanti a un Cristo deposto, umiliato e sfigurato.
Anche in questo terribile racconto sono presenti due soldati trascinati lì dalla strada, ragazzi del popolo chiamati a vigilare su un pericoloso - e ormai inerme - sovversivo. Le loro facce sono più rassegnate che trucidi. Il destino, che in questo caso porta il nome di Beniamino Simoni, ha deciso di essere dalla parte dei cattivi, senza fede e senza pietà. Uno volge gli occhi al cielo come per non essere coinvolto; e l'altro, più giovane, ha lo sguardo velato da umana pietà, la frangetta sulla fronte e un cappellaccio schiacciato sulla testa. Sta lì, a fianco di un cane tozzo come lui. È un giovane contadino, trovato a Cerveno. Beniamino Simoni ne ha incontrati e distribuiti tanti, nella sua Via Crucis la cui ultima stazione è a Breno. Per gli altri episodi tocca salire a Cerveno, dove il parroco Gualeni lo aveva chiamato. Beniamino era nato a Fresine, in Valsaviore, e a Cerveno immagina l'Ultima Salita, come mia sorella Elisabetta ha voluto titolare il suo appassionato e commovente film su questo grande artista dimenticato.
In questa spedizione l'ha accompagnata Giovanni Reale, il filosofo che non separa religione da ragione e ha offerto la sua preziosa testimonianza. Una fede fortificata dai sensi vigili, davanti a una imprevista passione. Ce ne aveva avvertititi Giovanni Testori, dopo avere illuminato i Sacri Monti piemontesi e lombardi. L'ultimo lo aveva trovato a Cerveno, in un santuario dove, tra scenografici affreschi, l'intero popolo partecipa ai riti. Il popolo vero, gli abitanti di Cerveno, chiamati a rappresentare gli uomini rispetto alle astratte figure sacre. L'interpretazione di Testori è così scandalosa, che Reale preferisce allontanarsene, sul piano interpretativo, per trovare conforto nella più tranquilla e ordinata esegesi di Fiorella Minervino, che dedicò un secondo studio a Beniamino Simoni.
Ma quale era la novità, lo «scandalo» di Testori? Nell'avere ribaltato il rapporto tra la vittima e i carnefici, di essere stato dalla parte del ladrone e non di Cristo. E soltanto nel dar parola a ciò che i suoi occhi vedevano, come scrive, scettico, Reale: «Nella Via Crucis di Simoni spiccano nettamente, dal punto di vista espressivo, poetico e scultoreo, le figure di coloro che eseguono la passione rispetto alla figura di Cristo e delle pie donne che la subiscono. La ragione, per Simoni, non sta dalla parte del condannato (e di chi lo rimpiange) ma proprio dalla parte di coloro che eseguono la condanna».
Testori è ancora più radicale e vede, davanti al popolo vivo di Cerveno chiamato per esprimere la sua brutalità, la banalità, l'assenza di verità (e quindi di spiritualità) delle figure sacre: «Accanto all'inesistenza di Cristo, l'inesistenza delle donne»; anzi, più orrendamente, della donna. Per pochi danari, come documenta il «libro dei conti», Simoni si garantisce la possibilità di riscattare il suo popolo per una «lucentissima sfida perpetrata dall'indigenza alla ricchezza, dalla servitù al potere e al dominio. Quasi che il Simoni avesse accolto l'impegno esclusivamente per tirar avanti la sua vita di saviorese maledetto e, nello stesso tempo, buttar fuori, lacerando coltri di silenzi di omertà e di paure, il rospo (al sat) che gli ingombrava la coscienza (e la fantasia): feto ligneo di una secolare, orrida condizione di servi; di venduti, di schiavi... il Simoni vive e soffre fino all'ultima stilla di sudore e di sangue le presenti e passate sofferenze, ingiustizie, violenze, servitù, turpitudini, sani e vergogne del suo povero, disperato, popolo; vive, soffre e constata; e constatando pietoso della sola pietà possibile a quei tempi (che era l'indignazione), una scultura gli cresce nelle mani, potente, tragica, nuovissima».
Il Christus patiens non è il Cristo apparente, puro simulacro, senza forza; ma sono gli esecutori, gli assassini, gli inchiodatori, i boia. Sono lo stesso popolo che ancora oggi, ogni anno, mette in scene la sacra rappresentazione della Passione di Cristo. Realtà e finzione si scambiano le parti. E c'è più verità nei personaggi scolpiti nel legno da Beniamino che nei corpi viventi che recitano. Simili sono ancora ma, con il tempo e il progresso, hanno perso le condizioni e le apparenze della miseria, della povertà, dell'umiliazione, della stessa violenza che sono stati costretti a esercitare. Il lupo prevale su Dio, ma il lupo è anche la vittima. Beniamino osserva gli abitanti di Cerveno e li traduce in sculture, con appassionata fedeltà, riproducendone i lineamenti, le teste quadre, le smorfie, le gambe corte. E ad essi, non al Cristo o alla Vergine, affida il compito di animare una storia che è lontana ma che appare subito attuale, e rinnovabile, e quotidiana. E più vera e presente nel legno che nella carne. Non teatro ma vita. L'umanità di allora è lo specchio di quella di oggi, ma senza ipocrisia e finto benessere.
L'uomo di Beniamino Simoni è nudo nella sua pura e fragile esistenza.
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